La storia di Daniele Nardi, dalla pianura di Sezze al Nanga Parbat
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi un estratto del libro “In vetta al mondo“, di Daniele Nardi e Dario Ricci, recentemente pubblicato da Infinito edizioni. Il volume racconta la storia di Nardi, grande alpinista nato in pianura, conquistatore di quattro “Ottomila”, vincitore del Premio Paolo Consiglio del CAI, già protagonista di pagine memorabili di questo sport. Scritto insieme al giornalista di Radio 24 Dario Ricci, ripercorre la vita dell’atleta dall’infanzia nella natia Sezze, in provincia di Latina, all’amore inusuale – per lui, nato in pianura – e magico per l’alta montagna, fino alla conquista in inverno (2013), in condizioni ambientali terribili, dello “sperone Mummery” (6.450 metri) del Nanga Parbat. Di seguito proponiamo la prima parte del secondo capitolo, intitolato “Radici”.
“Solo pochi istanti, che le bestie sono stanche e hanno bisogno di riposare”. Il dialetto di Pietro, lo confesso, mi resta nella penna, ma il suo accento è marcato e inconfondibile, e ancora vivo nel mio orecchio. È metà pomeriggio di un giovedì d’inizio dicembre. Di treno in treno, ho fatto filotto da Milano a Sezze per raggiungere Daniele, impegnato negli allenamenti ma soprattutto nell’organizzazione del cargo con tutto il necessario per la spedizione, da inviare al più presto in Pakistan. Saltiamo in macchina e cominciamo a chiacchierare, ma ho già chiaro quale obiettivo la mia guida abbia in mente: lo sguardo ha già puntato in lontananza i Monti Lepini. Si va in montagna, la montagna di casa. Davvero non penseresti mai che a partire da queste cime qualcuno è riuscito a immaginarsi sulla vetta dell’Everest, del K2 o del Broad Peak. Beh, quel qualcuno c’è, è al volante qui di fianco a me e guida in maniera decisamente sportiva…
L’Everest dei Monti Lepini è il Semprevisa: 1.536 metri sul livello del mare fatti di boschi e rocce calcaree, scavate e divorate da sorgenti carsiche. Non è un caso che c’imbattiamo in Pietro e i suoi muli proprio vicino a una sorgente. Soffia un vento freddo e l’orologio fagocita rapidamente le ultime luci del pomeriggio, ma Pietro, appena c’incrocia, ferma i suoi ciuchini con le zampe quasi piegate dalle fascine di legna che hanno sulla soma, e li mette in posa per qualche momento, per qualche foto. Neanche il tempo di salutarli, Pietro e i suoi muli, che Daniele con un paio di balzi è già alla base del suo sentiero d’allenamento preferito: “Lo vedi, laggiù? Guarda bene: pochi passi ed ecco il sentiero che porta fino alla vetta. È un terreno molto allenante, quasi mille metri di dislivello: dai 550 della Fonte delle Cornette, che è proprio quella fontana laggiù, a una decina di metri da noi, fino alla vetta, a quota 1.536. E sempre da quel punto ecco che parte la strada sterrata. Fino ai 1.200 metri di Campo Rosello in tutto sono una decina di chilometri, e altrettanti a riscendere a valle: quando vengo a farmi una corsetta, alla fine mi faccio quasi una mezza maratona!”. Sorride. E con gli occhi è in ricerca, perenne, di qualcosa, di qualcuno, di un oggetto. Di più. Di un segno. Di un significato. Di una traccia. Immerso nelle sue montagne, sembra un fauno, la mitologica divinità romana protettrice di selve e campagne, pienamente compenetrato dalla natura che lo circonda, impegnato a leggere e a decifrare gli indizi del bosco e della montagna. “Quando, a inizio primavera, quassù cominciano a soffiare i primi venti tiepidi, quasi puoi sentire il crepitio della neve che inizia a sciogliersi e lascia spazio all’erba che si fa largo verso la superficie”, dice Daniele, come se m’avesse letto nel pensiero. Saperla ascoltare, la montagna, forse è il primo passo per provare a capirla, scalarla, domarla.
Piet Mondrian, Dune vicino a Domburg, 1910 circa. Lo confesso, ho un debole per la storia dell’arte, che pure ai tempi dell’università ho praticato solo occasionalmente, seppur con buon profitto. Di fronte ai Lepini che mi si paravano davanti, mentre provavo a inseguire con gli occhi i punti e le indicazioni che mi davano le dita e la voce di Daniele, m’è venuto in mente quel capolavoro del grande artista olandese, emblema del suo periodo espressionista, ora conservato al Gemeentemuseum dell’Aja. Se provi a socchiudere gli occhi, il verde dei boschi che s’arrampicano sui Lepini scolora, gli alberi si fondono in un’unica macchia estesa, a disegnare una forma geometrica irregolare, ma perfetta in sé, che s’incastra in modo quasi meccanico, automatico, con il grigio calcareo delle pareti rocciose. Davvero sembra di vedere la trama quasi scolpita da Mondrian un secolo fa da tutt’altra parte del mondo. Daniele quelle rocce, quelle pareti, le conosce tutte, una a una, palmo a palmo. “La vedi, laggiù, quella cittadina arroccata in cima al monte? È Sermoneta. E vedi quella parete che sale proprio sotto al paese? Lì ho cominciato ad arrampicare: arrampicata sportiva, sì, con le mani, una corda di sicurezza, tanto coraggio e poco altro… Beata incoscienza! Ma poi ho capito che volevo fare altro: volevo scalare, volevo la cima, la vetta… Guarda di là, sulla sinistra! – indica rapido, agitando la mano – Quello è Bassiano, un altro borgo di neppure duemila abitanti che, insieme a Sermoneta, mi è molto vicino nel supportare i miei progetti di arrampicata sportiva nella zona; e quella lì sotto è un’altra parete buona dove potersi arrampicare. Perché qui, sui Lepini, certo non ci sono le pareti che trovi in Valle d’Aosta, sul Monte Bianco, o sulle Dolomiti, ma c’è molto da poter arrampicare e una buona comunità di arrampicatori e scalatori. E ci sono anche dei grandi chiodatori, che queste pareti le studiano, palmo dopo palmo, le attrezzano e le preparano, rendendole sicure. Un nome su tutti? Stefano Milani: lui le falesie dei Monti Lepini le conosce centimetro per centimetro: ha chiodato le Placche Rosse, quella lunga fascia calcarea che vedi proprio là in alto, sotto il paesino di Norma; e poi lo Scoglio dell’Araguna, Gecolandia, la Grotta del Pipistrello, la Gola dei Venti, e il ‘nostro’ Cerro Torre, una bella paretina che un po’ assomiglia alla leggendaria cima della Patagonia!”. Dall’ardore con cui ne parla e le descrive, capisci subito che Daniele delle sue montagne, della sua terra, si sente un po’ un ambasciatore nel mondo e in alta quota. Lo anima l’orgoglio per quanto fatto partendo dalla “conquista” della vetta del Semprevisa, mescolato e impastato, però, dal desiderio di vedere unanimemente riconosciuto il valore delle sue imprese. E non solo sugli Ottomila del mondo. “Pensi sia facile partire da qui, da Sezze, vicino Latina, tra l’Agro Pontino e la Ciociaria, per arrivare in cima all’Everest o al K2? E poi ricordati: nessuno è profeta in patria…”. La frase rimane sospesa nella brezza che comincia a soffiare da nord. Il sole affonda tra i monti. A valle, Sezze accende le sue luci. Da qui si domina tutto il gruppo dei Lepini, il gruppo degli Ernici, le Paludi Pontine. All’orizzonte c’è il Circeo, poi il mare e là in fondo l’isola di Ventotene. E a guardare da quassù perdersi nel mare i confini della terra, provi in cuor tuo pace e beatitudine.
“Sai, qui – dice Daniele – ci sono i ruderi delle capanne dei miei nonni paterni, c’è persino una valle dedicata a noi Nardi. In alcuni luoghi ci sono nascoste delle pareti su cui da solo, lontano dallo sguardo di tutti, ho cominciato a fare alpinismo. La mia prima grande impresa? La traversata da Sezze a Carpineto superando il Semprevisa: l’annunciai a 13 anni a mio padre e a mio nonno con tono trionfalistico: ma che freddo quella notte, quassù in cima!”. E anche la via non è poi così banale. “Da Sezze per compiere l’ascensione al Semprevisa – recitano i manuali – conviene seguire la valle di Suso, che forma un bacino chiuso a est dal monte, a sud da una serie di colline che separano la valle Pontina, e a nord dai monti di Bassiano, che connettono al sistema del Semprevisa la catena di piccole colline di fronte l’Agro Pontino. Sono circa sei ore di cammino”. E poi bisogna scendere verso Carpineto. “Un bel trekking, non c’è che dire”, penso tra me e me.
“Tante volte – continua – ho nascosto le mie salite: erano cose mie, personali, profonde. Senza volerlo e forse senza saperlo ero attratto da quell’indicibile forza dell’avventura, dell’essere appesi al nulla. Non ti parlo di arrampicata sportiva, di quella protetta e sicura dalle cadute. Quella dove il trapano perfora lasciando segni indelebili di acciaio sulla roccia, che attenuano le cadute e dove il coraggio è sostenuto dalla sicurezza. Parlo del salire semplice con le proprie forze su pareti aggettanti, dove la sicurezza di volta in volta devi cercartela tu, posizionando degli arnesi, friend e nut, che poi però togli dalla parete e che non sempre sono sicuri. Sai, sento la responsabilità verso i ragazzi di Mountain Freedom e certe volte mi trattengo dal raccontare queste cose: l’arrampicata sportiva è sicura, invece insegnare l’alpinismo è tutta un’altra cosa”.
Daniele Nardi e Dario Ricci