Risarcire l’ambiente: percorso in salita dalla “dark economy” alla “green economy”
C’è una linea che separa la green economy dalla dark economy? Il nostro sistema economico ha zone grigie in cui, pur in assenza di reati ambientali veri e propri, ci sono fenomeni border line? Quale percezione abbiamo del danno ambientale ed è possibile quantificarlo? Che strumenti ha il cittadino per difendere concretamente quello che Marco Mancarella, in un libro di una decina di anni fa, definiva il suo “diritto all’ambiente”? A rispondere a queste domande ci ha pensato il convegno dedicato al danno ambientale organizzato pochi giorni fa dallo Iuav, l’Istituto di architettura veneziano, e dall’Osservatorio Ambiente e legalità del comune di Venezia e Legambiente Veneto, nell’ambito di un ciclo di incontri intitolato appunto “Dark economy a Nordest, rifiuti, cemento, malaffare”, ispirandosi all’omonimo libro di Antonio Cianciullo ed Enrico Fontana per i tipi di Einaudi. Avvocati, docenti universitari, associazioni si sono incontrati con gli studenti di urbanistica per raccontare lo stato dell’arte dei reati ambientali nel nostro paese, tra autorizzazioni che non tengono conto del reale impatto ambientale di alcune grandi opere o industrie, diritto amministrativo a ostacoli, percezione del danno ambientale come un male necessario allo sviluppo. Il “la” lo hanno suonato gli avvocati Claudio Maruzzi e Matteo Ceruti, coautori insieme ad altri esperti del saggio “L’umanità vittima dei crimini ambientali. Danno, percezione e rimedi” edito dal Gruppo editoriale Viator.
“La percezione diffusa nella comunità è che l’inquinamento sia un male necessario, ma abbiamo un dovere di custodia dell’ambiente come un buon padre di famiglia – ha esordito Maruzzi – Se ragionassimo che i fattori ambientali sono la prima causa di morte al mondo, cambierebbe la nostra percezione e anche le strategie della politica”. Mentre l’ambiente, almeno in Italia, continua ad essere il grande assente nelle campagne elettorali: “Purtroppo i programmi elettorali che abbiamo visto per le recenti Politiche trascuravano il fattore ambiente. Non è ovunque così. In Francia, Francois Hollande in un pamphlet-intervista parlava di ‘imperativo ecologico come scelta non più procrastinabile’. L’Ilva di Taranto, che è bene ricordarlo aveva l’Autorizzazione integrata ambientale, è un caso clamorosamente calzante di mistificazione della realtà: un eccezionale danno ambientale di decenni e quando i giudici, doverosamente, sequestrano gli impianti, le reazioni dell’azienda, della politica e dei lavoratori sono contro la magistratura”.
Secondo il rapporto Ecomafia 2012 di Legambiente, i reati ambientali accertati nel 2011 sono stati complessivamente quasi 34mila, 93 al giorno, 4 all’ora. Il 48% dei reati è avvenuto nelle regioni a tradizionale infiltrazione mafiosa (Campania in primis, seguita da Calabria, Sicilia, Puglia). Il fatturato ammontava a 16,6 miliardi di euro. 346mila le tonnellate di rifiuti sequestrati, ponte spesso tra economia legale e sostenibile, la green economy appunto, ed economia illegale, la dark economy. Così anche le grandi opere viarie e i centri commerciali, grandi lavatrici di denaro sporco, spesso oggetto di inchieste per corruzione, come è avvenuto ad esempio per gli ipermercati di Buccinasco (Milano), Albuzzano (Pavia), Monza, Acilia (Roma), Palermo. Il Veneto è al terzo posto nella classifica di illeciti nel ciclo del cemento con un incidenza di 4,9 reati ogni 100 kmq.
Secondo Transcrime invece la regione è al primo posto per traffico illegale di rifiuti che vale per difetto 149 milioni di euro. Un business diverso dal vecchio smaltimento illecito in qualche discarica clandestina oggi si truccano la documentazione, i dati, i codici, i permessi e i traffici sono verso il Nord Italia e Nord Europa. “E anche verso la Cina, da dove poi i rifiuti tornano sotto forma di giochi od oggetti per la casa – ha commentato Luigi Lazzaro, presidente Legambiente Veneto che da due anni monitora il territorio – Le infrastrutture hanno poi passato il limite, non si tratta soltanto di consumo di suolo, rischio per la biodiversità ma anche di legalità, come dimostra il caso Mantovani (l’azienda che gestiva appalti pubblici, come il Mose di Venezia e l’Expo di Milano, finita recentemente nel mirino della Procura, ndr). Bisogna rivalutare il ruolo della politica che se non è connivente, spesso è in ritardo. E anche la responsabilità dei singoli cittadini. Constatiamo che molti reati ambientali sono di “piccolo taglio”, cittadini disattenti, disinteressati, forse anche colpevoli”.
Ma i cittadini consapevoli che strumenti hanno per difendere il loro territorio? Uno è l’investigazione difensiva in ambito ambientale anche preventiva, che il pool di avvocati capeggiato da Maruzzi ha usato per far valere le ragioni dei residenti nei confronti dell’inceneritore a Ferrara. L’altro è, con tutte le sue luci e ombre, il giudice amministrativo. “Benché la convenzione internazionale di Aarhus del 1998, recepita dall’Italia nel 2001, abbia stabilito tra le altre cose che l’accesso alla giustizia amministrativa in caso di questioni ambientali è legittimato da un interesse sufficiente del ricorrente –continua Ceruti – i giudici italiani non ne tengono mai conto, accettando il ricorso solo quando si dimostra che si può subire un danno, ma il nesso causa-effetto non si può per definizione dimostrare preventivamente”. Il Tar inoltre spesso non considera ammissibili ricorsi di associazioni locali e i costi per i singoli cittadini sono molto elevati, tanto che in Veneto i processi al Tar sono dimezzati in cinque anni, e non perché non ci siano illeciti. “In Italia quando si parla di riforma della giustizia si pensa sempre a quella penale o allo stato comatoso in cui versa la civile, ma mai di quella amministrativa, quando in realtà di fronte al giudice amministrativo finiscono alcune delle grandi questioni economiche, ambientali, sociali e territoriali del nostro Paese, come Piani regolatori e grandi opere. È fondamentale cambiare il reclutamento, non è accettabile che buona parte dei giudici del Consiglio di Stato siano di scelta governativa. Alcuni hanno contemporaneamente anche ruoli di consulenza per il governo. Se non si svincolano dal controllo politico non ci potrà essere terzietà”.
Ma chi inquina paga davvero? E come si quantifica il valore del risarcimento di un bene, come l’ambiente, che di per sé è inestimabile? I casi ci sono, in Italia come all’estero. I giudici hanno accertato la responsabilità delle emissioni dannose della centrale termoelettrica di Porto Tolle sia in capo ai dirigenti locali dell’azienda sia in capo agli amministratori delegati di Enel Spa, accusati di non aver dotato l’impianto delle tecnologie di prevenzione dell’inquinamento. A dicembre in Corte d’appello ci sarà l’udienza per l’esatta quantificazione del danno. Un’altra condanna in primo grado con risarcimento del danno riguarda, sempre in Veneto, la realizzazione a Porto Levante del terminal gasifero, il più grande rigassificatore off shore del mondo nell’area di rilevanza ambientale comunitaria del Delta del Po.
Storica è però la sentenza ecuadoregna del 2011 con cui è stata condannato il colosso petrolifero statunitense Chevron a 9 miliardi di dollari per il disastro ambientale che la Texaco, con cui si era fuso nel 2001, avrebbe provocato nella foresta amazzonica tra 1972 e 1992. Sentenza confermata in appello l’anno successivo, anzi raddoppiata a 18 miliardi di dollari (per le mancate scuse alla popolazione). Prevede il ripristino del suolo, delle falde, della foresta inquinate e l’obbligo di istituire un servizio sanitario nazionale per curare le patologie della popolazione derivanti dall’esposizione ad agenti inquinanti. “Benché l’esecuzione della sentenza non sarà affatto semplice per le reazioni della multinazionale appoggiata dal governo americano, il principio rivoluzionario del risarcimento del danno ambientale è segnato”, hanno commentato i due avvocati-scrittori.
Alessandra Sgarbossa