Rosa Jijón, un infarto emozionale davanti al paesaggio dell’Antartide
Maria Rosa Jijón, artista ecuadoriana residente a Roma da molti anni, è rientrata da poche settimane da una residenza artistica in Antartide. Vincitrice di un bando del ministero della Cultura del suo Paese, ha trascorso 18 giorni nella base scientifica Pedro Vicente Maldonado, insieme a una squadra di studiosi e militari. Qui ha raccolto immagini e impressioni sul luogo, la natura e le attività dei ricercatori. Ha lavorato sull’immaginario della conquista dell’ultimo baluardo di terra libera, legandolo all’aspetto anche fisico e psicologico dell’immersione in un contesto ambientale avverso. Riflessioni che hanno preso via via corpo nel suo blog Archivo del Hielo o de como superar el terror al blanco (“Archivio del Ghiaccio o di come superare il terrore del bianco”, ndr). In questo momento, in collaborazione con l’artista Paúl Rosero, anche lui vincitore del bando, sta preparando una mostra sull’Antartide che debutterà in Ecuador tra alcuni mesi e toccherà gli altri Paesi dell’America Latina, per arrivare, forse, anche in Italia.
D) Maria Rosa, come è stato il primo impatto con un ambiente così diverso da quello in cui viviamo ogni giorno, come l’Antartide?
R) E’ stato molto bello prendere un aereo dalla fine del mondo e sapere che stavo andando in un’isola di ghiaccio, lontana da tutto. Per entrare e uscire dall’Antartide ci ho messo quattro giorni: bisogna passare dal Cile e, arrivati a Punta Arenas, aspettare che ci siano condizioni meteo favorevoli per partire in aereo e atterrare sull’isola. Quando sono arrivata, ho avuto un “infarto emozionale” per la bellezza del paesaggio. In Antartide tutto dipende dal clima e da altre persone che devono tutelarti: è un impatto veramente forte, rafforzato dal bianco che è dominante.
D) Nel titolo del suo blog parla del “terrore del bianco”. Cosa intende con questa espressione?
R) E’ una sensazione che identifica una terra incognita, sconosciuta, ancora da scoprire. Ma il bianco è anche quello che non dobbiamo conquistare ed esplorare, ma solo rispettare. Di fronte ad esso dobbiamo fare un nuovo esercizio mentale di umiltà, mettendosi non nei panni del conquistatore, ma dalla parte del ghiaccio. È un patrimonio di tutti, che si impone come un grande sciamano pieno di saggezza: l’approccio non può essere quello di sfruttarlo per l’utilità che se ne può trarre. Bisogna fare un passo indietro e anche le arti visive, in questo senso, possono attirare l’attenzione su comportamenti di dominio inaccettabili.
D) Per la sua esperienza diretta, ha visto delle differenze nell’approccio di diversi Paesi a questo luogo?
R) Sì, assolutamente. La base cinese, per esempio, è gigantesca: non ha strutture basse e rosse come le altre basi, ma palazzoni bianchi di quattro piani, che hanno un impatto ambientale abbastanza forte. Al contrario, gli stati del Sud America hanno un approccio molto più mite: collaborano condividendo le infrastrutture e mettendo in comune i risultati delle ricerche. L’Ecuador negli ultimi anni è riuscito anche a chiudere l’80% dei sentieri turistici in Antartide. In quest’ottica di rispetto e tutela si colloca anche l’idea delle residenze artistiche, l’interesse allo sguardo poetico su questo luogo così delicato che un artista può restituire.
D) Ci sono anche differenze di genere, secondo lei, nell’approcciarsi ad ambienti così fragili?
R) Sì. Le donne sono andate in Antartide sono alla fine degli anni Cinquanta, quasi un secolo dopo gli uomini, e non hanno mai voluto conquistarla. Hanno rinunciato fin dall’inizio alla presenza territoriale, considerandola invece un luogo di condivisione.
D) Come ha interpretato nel suo lavoro artistico il tema della conquista di questa terra?
R) Attraverso una serie di “azioni territoriali”. Considerando che piantare la bandiera è il gesto-simbolo di ogni conquista, ho cercato di rovesciarne il senso: ho portato con me delle bandiere antartiche, di vari colori, e ho chiesto ai vari componenti della stazione di piantarne una. È un gesto al contrario, per far capire che su quella terra non possono esserci mire di singoli stati: è un bene comune.
D) Come è stato trovarsi a lavorare insieme a scienziati e militari?
R) Arte e scienza sono due mondi che non si incontrano spesso, ma in realtà abbiamo scoperto dei punti d’incontro importanti. Il metodo di lavoro, per esempio, ci avvicina: entrambi uscivamo per raccogliere prove, e poi rientravamo per vedere loro i campioni, e io le immagini girate. Dagli scienziati ho raccolto molte informazioni che sto utilizzando nella preparazione della mostra, mentre alcuni di loro si sono interessati ai piccoli droni che ho usato per catturare immagini dall’alto. Una tecnologia che potrebbe rivelarsi utile anche per la ricerca.
D) Non è la prima volta che si dedica a temi ambientali. Su cosa si è concentrata in passato?
R) Sono molto interessata a raccontare i paradossi dello sviluppo, che si porta via interi territori. Nel 2011 ho portato alla Biennale di Venezia il progetto “Paradoja Manta Manaos”, sulla via omonima, un percorso alternativo al canale di Panama che si sta portando via la natura e con essa i diritti dei popoli indigeni. Penso che l’arte possa offrire uno sguardo poetico su quello che ci stanno togliendo. Nel 2003, con “Il popolo dell’acqua”, ho seguito le battaglie dei cittadini della Val di Lemme, tra Liguria e Piemonte, che protestavano contro la costruzione di un nuovo acquedotto.
Veronica Ulivieri