Conca d’oro: nascita e morte di un paesaggio agrario palermitano
“Come è potuto accadere che la Conca d’oro in cui è collocata Palermo, la conchiglia più bella nella quale Venere fu portata attraverso il placido mare, il paesaggio di giardini e di frutteti, di fatiche umane, di biodiversità e di dolcissimi mandarini, il luogo che Stendhal aveva definito come il paese dove gli aranci crescono in piena terra, com’è potuto accadere che la Conca d’oro sia stata sepolta da trecento milioni di metri cubi di cemento?“, si domanda Giuseppe Barbera nel suo nuovo libro “Conca d’oro“.
Nell’ultimo seminario del ciclo “Incontri con il paesaggio“, organizzato nell’ambito del corso di laurea magistrale in Progettazione delle Aree Verdi e del Paesaggio a Torino, l’Assessore alla Vivibilità di Palermo, docente universitario di Arboricoltura in trasferta, traccia le varie fasi che hanno portato allo scempio ambientale della città siciliana.
Racconta Barbera che nel 1957 un famoso naturalista nei pressi di Palermo osservò una stranezza: due pulci d’acqua, di specie diversa, che condividevano la stessa polla; da qui l’intuizione che sta alla base della nozione di biodiversità. Ecco cos’è, prima di tutto, la Conca d’oro: «Fertile concetto: aura concha, che della conca, della conchiglia e del grembo racchiude la fecondità e la sensualità. Un’idea unitaria, durata centinaia di generazioni, capace di produrre molte altre idee nelle mani e nelle menti, già dai segni delle incisioni rupestri». La qualità della Conca d’oro sta nell’incrocio di produttività e di bellezza. Trecento generazioni di agricoltori, racconta Barbera – che è anche collaboratore del Fai per il recupero della Kolymbetra nella Valle dei Templi e del giardino Donnafugata nell’Isola di Pantelleria – hanno adattato i frutteti a giardini, protetti da una barriera di montagne che preservano il clima, forniscono acqua e che indussero Braudel a usare l’aggettivo “paradisiaco”.
Il paesaggio palermitano è un paesaggio culturale, un sistema equilibrato che modula le risorse disponibili dando alla natura una forma, una “porzione del mondo visibile incorniciata entro limiti che ben distinguono la pianura costiera”. Il paesaggio di Palermo è percepibile come la scena di un teatro, dove l’uomo è attore ed anche spettatore di queste inenarrabili bellezze panoramiche. Emilio Sereni, autore della “Storia del Paesaggio Agrario Italiano” (Laterza, 1961) aveva definito così il contesto ambientale del giardino mediterraneo: “E’ composto da appezzamenti irregolari, chiusi, dominati dalla necessità di proteggere le culture arboree ed arbustive dal morso dei greggi, ed i loro frutti dai furti campestri”. Ma il giardino di orti, frutta ed alberi, coronato dai monti rosa-violetto e fermato dal mare, su cui sorse Palermo, coltivato dai millenni, è stato cancellato dal cemento e dalla mafia in cinquant’anni. Della bellissima città del Gattopardo, caratterizzata dalla perfezione del paesaggio e da frutteti profumati, è rimasto ben poco: dagli anni Cinquanta ad oggi, a ritmi forsennati, si è costruito sull’80% del suolo disponibile. “La Conca d’oro fu l’opera dei palermitani; laboratorio perenne di diversità biologica; archetipo, con le sue infinite combinazioni, di un modo di civilizzazione. Tanto da trasmettere la certezza che la sua agonia cementizia, sia l’agonia della civiltà cittadina”.
Purtroppo il caso di Palermo è solo una delle innumerevoli situazioni critiche in Italia: il paesaggio agrario, quella “forma che l’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale” come spiegava Sereni, è oggi completamente diverso e compromesso dall’ignoranza dell’uomo. L’uomo, nel tempo, ha contribuito a modificare irreversibilmente il paesaggio nel suo assetto fisico per adattarlo alle proprie esigenze, strettamente legate ai suoi bisogni alimentari e secondo specifiche dinamiche economiche. La qualità di un paesaggio si misura anche in termini di riconoscibilità di ogni sito e dell’equilibrio delle sue componenti: in questa direzione dovrebbero andare le azioni del governo locale, a partire dalla pianificazione fino alla progettazione, con uno sguardo più ampio di connessione tra i sistemi paesistici, mantenendo la biodiversità e cercando di evitare il più possibile cementificazioni inutili e frammentazioni del territorio. Preservare la diversità del paesaggio, del resto, è l’unico modo possibile per creare uno sviluppo sostenibile e per regalare ancora un futuro alle nuove generazioni. Ora, con le elezioni politiche alle porte, sapremo presto se si vorrà costituire veramente un nuovo assetto che rispetti il patrimonio culturale-ambientale o se – per dirla con le parole di Salvatore Settis - “lo Stato-Saturno continuerà a divorare i propri figli”.
Valentina Burgassi