Il mesaggo di Legambiente in occasione dell’apertura di Doha
A Doha si chiude una fase storica dei negoziati sul clima. Quella in cui ci si era illusi che per superare la crisi climatica fosse sufficiente l’impegno legalmente vincolante di riduzione delle emissioni da parte dei soli paesi industrializzati. E si avvia la transizione verso un nuovo accordo globale con un “arco d’impegni” vincolanti per tutti i paesi nel pieno rispetto dell’equità, secondo il principio di responsabilità comuni ma differenziate tra paesi ricchi e poveri. Come concordato a Durban lo scorso anno, l’accordo dovrà essere sottoscritto entro il 2015 e divenire operativo entro il 2020.
Per avviare la transizione a Doha si dovrà dunque adottare il programma di lavoro della cosiddetta “Piattaforma di Durban”, che con una dettagliata tabella di marcia deve guidare i negoziati per raggiungere un nuovo accordo globale giusto, ambizioso e legalmente vincolante entro il 2015. Nel programma di lavoro si dovrà in particolare definire il percorso negoziale per colmare il preoccupante gap esistente (8-13 Gt di CO2 secondo il recente rapporto dell’UNEP) tra gli impegni di riduzione assunti sino ad ora dai diversi paesi e la riduzione di emissioni indispensabile per rientrare nella traiettoria di riscaldamento del pianeta non superiore almeno ai 2°C, tenendo conto del nuovo Rapporto IPCC previsto per l’ottobre 2014. E senza mai dimenticarsi per un momento che gli impegni di riduzione attuali ci stanno portando verso una via di non ritorno con un surriscaldamento stimato tra i 3.5°C e i 6°C.
“In questo contesto è fondamentale approvare a Doha il rinnovo degli impegni previsti dal Protocollo di Kyoto, in scadenza alla fine di quest’anno – ha dichiarato Mauro Albrizio, Responsabile Politiche Europee di Legambiente – Sino ad ora, tra i paesi industrializzati, hanno garantito la sottoscrizione l’Unione Europea, la Svizzera e la Norvegia. Mentre USA, Canada, Giappone e Russia si sono già detti contrari. Australia e Nuova Zelanda invece devono ancora assumere una decisione finale. Nonostante ciò il ‘Kyoto 2′ è uno strumento indispensabile a garantire la transizione verso il nuovo accordo globale; è l’architrave del nuovo accordo e garantisce la continuità degli impegni di riduzione legalmente vincolanti per il periodo di transizione 2013-2020”.
I negoziati sul “Kyoto 2” sono a buon punto. Restano ancora da sciogliere alcuni nodi giuridici per garantire l’immediato avvio dal 1° gennaio 2013, e soprattutto resta da risolvere la questione spinosa del surplus di emissioni assegnate per il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto e che secondo le norme attuali possono essere conteggiate per gli impegni di riduzione del secondo periodo 2013-2020. Si tratta di ben 13 miliardi di tonnellate di CO2 – pari a tre volte le emissioni annuali dell’Unione Europea – che interessano soprattutto Russia, Ucraina ed alcuni paesi dell’Est Europa. Questo surplus rischia di mandare in tilt l’intero sistema se si continua a consentire la possibilità di vendere sul mercato delle emissioni le quote in eccesso, in quanto renderebbe virtuali gli impegni di riduzione dei paesi acquirenti. Ma una soluzione di buon senso sta guadagnando un crescente consenso. Si tratta della proposta dei paesi in via di sviluppo – sostenuta da Cina, India, Brasile e Sudafrica – di consentire l’uso del surplus sino al 2020 solo per gli “usi domestici” dei paesi detentori delle quote in eccesso, vietando però loro la possibilità di immetterle sul mercato.
Altra decisione fondamentale per il buon esito di Doha riguarda gli aiuti ai paesi poveri per sostenere i loro impegni di riduzione e di adattamento a cambiamenti climatici in corso nel periodo di transizione 2013-2015 con un sostegno finanziario annuo di almeno 10-15 miliardi di dollari.
“Serve, infine – ha concluso Albrizio – un segnale forte che dimostri concretamente la volontà politica di lavorare per davvero verso un nuovo accordo ambizioso e giusto. L’eliminazione entro il 2020 dei sussidi ai combustibili fossili è senza dubbio una decisione che va in questa direzione. Si tratta di circa 800 miliardi di dollari l’anno che potrebbero essere invece destinati a sostenere azioni di mitigazione e adattamento, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. In questi paesi l’Agenzia Internazionale per l’Energia stima in ben 630 miliardi di dollari l’ammontare dei sussidi ai combustibili fossili, la cui eliminazione consentirebbe una riduzione delle emissioni del 5.8% entro il 2020. Oltre 110 paesi – non solo in via di sviluppo ma anche Stati Uniti e Unione Europea – si sono già espressi a favore. Decisione ormai non più rinviabile”.