Comunicazione ambientale: evitiamo la “commodification”
Nel gergo economico il termine “commodity” indica un bene per cui c’è domanda, ma che è offerto senza differenze qualitative sul mercato. Il prodotto, cioè, è considerato lo stesso, indipendentemente da chi lo produce. Ecco il rischio che vedo, ultimamente, per la comunicazione e l’informazione sui temi dell’ambiente e della green economy, di cui si parlerà stamattina nel Social Media Corner di Ecomondo, su iniziativa della community dei giornalisti ambientali, a cui anche Greenews.info ha aderito.
La commodification (si legge su Wikipedia) “accade quando beni o servizi di un determinato mercato perdono la loro differenziazione”. E, aggiungerei nel caso specifico, quando iniziano ad essere considerati, dagli utenti (e dai clienti) come qualcosa di scontato e a basso valore, che può addirittura essere regalato all’acquisto di qualcos’altro, che viene, al contrario, percepito come il vero servizio o prodotto di valore.
Ho già accennato ieri, in un articolo sugli Stati Generali della Green Economy, al problema del ruolo ancillare che è stato riservato, in questa “piattaforma programmatica” (che considero, comunque, un’operazione meritoria e ammirevole) alla comunicazione della green economy e all’informazione sulla green economy. Quest’ultima, nella presentazione generale dell’ex ministro Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, è stata citata en passant, in poche righe di una slide di powerpoint, tra gli “altri strumenti” per la promozione dell’economia verde. Mi sembra francamente un po’ poco per chi, come il sottoscritto e molti altri colleghi dedica anni di lavoro – senza un euro di finanziamento pubblico, come solitamente accade per il giornalismo online - a raccontare cosa fanno gli enti, le imprese e le istituzioni della green economy, per comunicarne il valore aggiunto e informare correttamente non solo il cittadino, ma anche gli stessi operatori dei diversi settori della green economy (che spesso non sanno cosa fa il “vicino di casa”), sulle opportunità di sviluppo e le buone pratiche, nazionali e internazionali.
Paradossalmente, i primi due punti delle “70 proposte di sviluppo della green economy per contribuire a far uscire l’Italia dalla crisi“, contenuti tra le “Misure generali”, parlano proprio di come “diffondere la nuova visione della green economy” (proposta 1) e di come “migliorare e rafforzare la comunicazione agli investitori e ai mercati sui vantaggi della green economy” (proposta 2). In diversi passaggi torna poi spesso il termine “valorizzare” (il potenziale green delle imprese, il territorio italiano, le aree naturali ecc.). Forse la mia sarà una deformazione professionale, ma come si dovrebbero valorizzare questi asset del patrimonio nazionale, e diffondere una nuova cultura della green economy, se non, innanzitutto, comunicando e informando i diversi pubblici di riferimento?
Il mercato della comunicazione e dell’informazione stanno vivendo – come tutti, ma per certi versi in maniera più profonda – una crisi economica e d’identità senza precedenti. Le grandi e gloriose testate cartacee si interrogano sul proprio futuro e sull’ipotesi di migrare definitivamente su internet (per questioni di costi, non per convinzione). Gli editori indipendenti online continuano ad affrontare, quotidianamente (anche se molto meno del passato, a dire il vero), una sorta di discriminazione e di scetticismo diffuso, come se per diventare di qualità un contenuto dovesse essere necessariamente riversato su un supporto cartaceo (in contraddizione, per altro, con quanto sopra). Gli uffici stampa seri fanno i salti mortali per portare a casa qualche dignitoso contratto, mentre i non seri si improvvisano in un settore – quello della green communication – che non conoscono e che richiede una diversa sensibilità e, soprattutto, una conoscenza specifica dei temi (basta, per favore, scrivere che la tale impresa è “amica dell’ambiente”, o “sempre più green”! Servono contenuti e approfondimenti concreti). Tutti siamo costretti a rincorrere potenziali clienti d’agenzia e inserzionisti (più o meno illuminati), che vogliano ancora investire qualche euro in pubblicità, servizi editoriali o altri servizi di comunicazione. Già, perché, per chi se lo fosse dimenticato, agenzie e media non vivono d’aria e di sola gloria, ma di questo business, che, per quanto immateriale, è una professione, che richiede tempo, sudore, studio e aggiornamento continuo, come qualsiasi altro lavoro. Se i politici, gli amministratori e gli imprenditori – al di là dei proclami di circostanza – lo comprendessero a fondo ed evitassero, al primo soffio di aria fredda, di tagliare con l’accetta i budget di comunicazione, forse riusciremmo, tutti insieme, a far realmente decollare la green economy e uscire un po’ prima dalla crisi.
Andrea Gandiglio