Urban mining: la città si trasforma in una preziosa miniera di metalli
Da una tonnellata di schede elettroniche, si possono ricavare più di 2 quintali di rame, oltre 46 chili di ferro, quasi 28 chili di stagno e alluminio e circa 18 chili di piombo. Più, per limitarci solo ai metalli, quantità minori di argento, platino e palladio.
Mentre cresce a vista d’occhio il numero dei dispositivi mobili che ognuno di noi si porta al seguito, aumenta la strategicità dei metalli in essi contenuti, e dunque il valore dei cosiddetti RAEE, i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche. Metalli preziosi e rari sono presenti infatti in grandi quantità nelle schede elettroniche e nei condensatori di computer e telefoni cellulari. Recuperandoli, non si utilizzano materie prime presenti in natura e si risparmiano i costi, spesso gravosi, per l’approvvigionamento o lo smaltimento, con vantaggi sia ambientali che economici.
Oggi in Italia, spiega Laura Cutaia, ingegnere ambientale ricercatrice Enea, “ci sono ancora pochi impianti che estraggono metalli preziosi e terre rare dai RAEE, attività che invece spesso demandiamo a imprese fuori dai confini nazionali”. Da un anno è attivo in Sicilia un progetto sperimentale dell’Enea, finanziato dal Miur per oltre 4 milioni di euro che, oltre ad una parte riguardante il turismo sostenibile, comprende anche interventi per il recupero di “materie prime seconde” da Raee: “L’obiettivo – racconta Roberto Morabito, responsabile dell’ unità Tecnica Tecnologie Ambientali dell’agenzia di ricerca – è la gestione integrata dei rifiuti elettronici tramite la realizzazione di una piattaforma di simbiosi industriale e di un impianto pilota per il recupero di materie prime tramite la tecnologia idrometallurgica, innovativa rispetto a quella pirometallurgia attualmente usata, per esempio, in Germania. Un metodo nuovo che permette, diversamente dagli impianti tedeschi, il recupero di un elevato numero di metalli con un alto grado di purezza, bassi costi energetici e zero emissioni in atmosfera”.
Nella Raw Material Initiative, la strategia per le materie prime dell’UE, varata un anno e mezzo fa, il recupero e il riciclo dei materiali, in particolare di quelli più scarsi e costosi, o difficili da reperire sui mercati internazionali, ha un ruolo di primo piano. E le città, prima ancora dei giacimenti naturali, vengono considerate vere e proprie “miniere urbane” di materie prime, in inglese Urban Mining: “Si tratta prima di tutto – continua Laura Cutaia – di una diversa strategia per l’approvvigionamento di materie prime, basata sulla stima qualitativa e quantitativa degli stock presenti in un territorio, e sui flussi in entrata e in uscita. Il calcolo delle risorse “immobilizzate” ad esempio negli edifici, come metalli, legno e vetro, consente di poter stimare le risorse che si renderanno nuovamente disponibili quando queste costruzioni, arrivate al termine della loro vita utile, saranno demolite”. Su questa base, uno Stato può elaborare un piano minerario capace di coniugare sostenibilità economica e ambientale: “Lo Urban Mining può essere una strategia complementare per reperire materiali, accanto al riciclaggio e all’approvvigionamento di materie prime, che in Italia vengono in molti casi dall’estero”.
Così, se l’Ordine dei Geologi, per bocca del presidente Gianvito Graziano, insiste sulla necessità che l’Italia torni ad estrarre secondo “una nuova politica di sviluppo (…) senza pregiudizi e senza eccessi”, l’UE punta, in parallelo, su “riciclo, efficienza delle risorse e sostituzione” dei materiali più rari con altri meno critici. Tenendo anche conto dei forti impatti ambientali dell’attività estrattiva che, spiega l’esperto di riqualificazione ambientale Marco Stevanin, “non è sempre facile o possibile mitigare o compensare”.
Anche il sistema economico sta comprendendo la necessità di puntare sul riutilizzo di molte risorse: in edilizia per esempio, continua Stevanin, “oramai è prassi di alcuni grandi gruppi che si occupano anche di estrazione attivare rami di azienda dedicati al riciclaggio degli inerti. L’interesse è quello di mantenere il più a lungo possibile una concessione di escavazione calibrando l’estrazione e parallelamente investire nel sistema del riciclaggio e recupero”.
Ma perché anche in Italia diventi realtà un’economia basata sul riutilizzo delle risorse urbane, è necessario intervenire sui canali di approvvigionamento, a partire proprio da quelli dei rifiuti elettronici, che ancora presentano diverse criticità. “Delle 900.000 tonnellate di RAEE che si stima siano state prodotte in Italia nel 2011, solo 260.000 sono entrate nei circuiti di raccolta e trattamento”, continua Laura Cutaia. La parte restante, oltre il 70%, è stato smaltito in maniera errata, impropria e anche illegale: “In alcuni casi i piccoli elettrodomestici sono stati magari gettati nell’indifferenziato e sono arrivati in discarica, ma molto più spesso sono stati trasferiti nei Paesi in via di sviluppo, o sotto forma di apparecchi di seconda mano o attraverso canali illegali di esportazione dei rifiuti. Qui i RAEE vengono trattati per estrarre le componenti più preziose, con tecniche molto rudimentali peraltro dannose per le persone e per l’ambiente”.
Dallo stabilimento pilota siciliano dovrebbe nascere, per opera degli imprenditori dell’isola, un impianto industriale vero e proprio. Ma sul progetto grava un punto interrogativo di nuovo legato alle criticità del sistema italiano: “Per giustificare l’investimento – sottolinea Roberto Morabito – gli imprenditori devono essere sicuri di poter contare su un approvvigionamento costante di questi componenti, che viceversa troppo spesso spariscono dalla filiera di raccolta. Il nostro Paese, attraverso vari strumenti che vanno dai controlli a incentivazioni per il corretto smaltimento, dovrebbe fare in modo che questa grande ricchezza rimanga in Italia”.
Veronica Ulivieri