Anemos. I venti del Mediterraneo e i loro odori
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “Anemos. I venti del Mediterraneo” di Fabio Fiori , edito da Ugo Mursia Editore (pag.108, 9.00euro).
Sono nato sulle rive dell’Adriatico, agitato e iracondo secondo gli antichi, stretto da alte montagne a occidente e a oriente. Alpi, Appennini e Balcani si alzano maestosi praticamente dall’acqua. Un mare chiamato per secoli Golfo di Venezia, una profonda insenatura mediterranea, dal tempo eternamente variabile, in cui nel volgere di una giornata il vento può fare tutto il giro dell’orizzonte e passare dalla bonaccia bianca al fortunale. I venti adriatici sono innanzitutto capricciosi e umorali, difficilmente prevedibili, perciò ancor più affascinanti.
Da bambino, andando a remi, ho scoperto la forza del Furiano e le bizzarrie del Garbino. Poi nella prima notte di navigazione a vela ho conosciuto il vento di Focara, di dantesca memoria. Ancora oggi continuo a guardare il cielo e il mare con il cuore in gola, quando attraverso le Bocche di Cattaro, bordeggio nel Canale del Maltempo, scapolo la Punta della Maestra. Luoghi il cui solo nome induce da sempre nel navigante timore reverenziale. In una luminosa giornata d’autunno la Bora mi ha strappato una vela troppo grande, che incautamente portava la barca e l’equipaggio oltre le proprie possibilità. Mi sono rifugiato nell’isola di Sansego per evitare di essere investito da un colpo di Neverino nel Golfo del Quarnero.
A terra, come in un racconto di Giani Stuparich, c’erano pescatori e piloti che avevano controllato le mie manovre, pronti a venire in aiuto. Erano preoccupati, conoscendo bene la repentina violenza di quel vento. A Portovenere, all’ingresso del Golfo di La Spezia, ho passato una notte insonne a controllare gli ormeggi della barca, tesi come corde di violino da una libecciata. Ho atteso giorni a Vittoriosa nell’isola di Malta, aspettando che il Maestrale si quietasse, per farmi poi spingere verso la costa maghrebina. Altrettanto lunga e preoccupata è stata la sosta impostami dal Ponente nel piccolo, fortificato porto di Centuri in Corsica.
Di contro, ogni inverno, nelle quiete acque adriatiche attendo per ore una brezza di Tramontana, capace di spazzare la nebbia e riempire le vele. Non dimentico la gioia provata anni fa quando, con il sopraggiungere dello Scirocco, la barca riprese l’abbrivio dopo un’interminabile notte di bonaccia nel Canale d’Otranto. O l’ancor più ansiosa attesa di un alito di vento che mi evitò di venire trainato, da un’infausta corrente, sulle secche dell’isola di Montecristo. Anch’io come Goethe ero in balia di un’assoluta bonaccia. Il veliero su cui viaggiava il poeta rischiò infatti di finire sugli scogli delle Sirene presso Capri, proprio perché rimase a lungo senza vento, andando pericolosamente alla deriva. Inutili risultarono i tentativi di trainare la nave con una piccola scialuppa a remi; solo il provvidenziale arrivo di una leggerissima brezza salvò la nave dal naufragio e il comandante, accusato d’imperizia, da una rivolta dei passeggeri. Nicolò Tommaseo, linguista dalmata attento alle parole della gente di mare, scrisse che la bonaccia non piace al marinaio che vorrebbe vedere sempre gonfie le vele.
Lungo tutte le rive del Mediterraneo, il vento insieme al cielo e alle onde sono frammenti intatti di un paesaggio «odissiaco» giunto fino ai giorni nostri. Anzi, il vento più delle onde solcate da enormi mercantili e del cielo attraversato da veloci aerei, rimane l’unico immutabile elemento dalla notte dei tempi. Forse anche per questo indissolubile legame con un passato mitico, crescendo mi sono appassionato alla vela, che del vento è la macchina per eccellenza. Ho così imparato a riconoscerne la provenienza e la forza, a dirne i nomi e predirne i cambiamenti, a sentirne l’odore. Sì l’odore, perché ogni vento ha uno strettissimo rapporto con il luogo, con le forme del mare e della terra. Il vento investe, abbraccia, stringe le acque, le rocce e le sabbie, raccogliendone l’odore e portandolo lontano.
Ma la curiosità di anno in anno si è fatta divorante. Non mi sono più bastati gli orizzonti della mia barca e del mio tempo, della mia lingua e della mia cultura. Mi sono così imbarcato in un’avventura più grande, entrando a far parte di un variegato equipaggio mediterraneo, che chiama il vento vjetar, wind, ,טניוו erë, حايرلا , rüzgar, viento, vent. Parole ordinate in relazione ai miei incontri, dapprima con slavi e tedeschi, poi con ebrei e albanesi, infine uscendo dall’ellisse adriatica, con turchi, arabi, spagnoli e francesi. Di tanti altri ho ascoltato con piacere la voce, non riuscendo però a trascriverla.
Il timoniere di questa nave chiamava il vento con una più antica parola, άνεμος, che portava tatuata sul braccio. Ánemos, una voce che è da sola poesia.
In una notte senza luna, con il mare imbiancato dal Grecale, mi disse di aver appreso quel termine in un primo viaggio iniziatico, a bordo di un antico vascello che aveva una trave sacra posta in mezzo alla carena, ricavata da una quercia di Dodona. Raccontò anche i reconditi significati di ánemos e di un’altra parola pericolosa e seducente: psychein, soffiare. Credo di dover ringraziare la fortuna di quella notte per aver perso memoria delle rotte mitiche e religiose di anima e psiche. Mi avrebbero allontanato dal previsto approdo, portandomi in mari oscuri. [...]
Fabio Fiori*
*Fabio Fiori è nato a Rimini nel 1967. Ricercatore e insegnante, è appassionato di mare, vela, remo e nuoto. Nel 2001 ha lavorato al progetto editoriale “Adriatico Mare d’Europa. L’economia e la storia”. Ha pubblicato ”Un mare. Orizzonte adriatico” (2005), ”Abbecedario Adriatico. Natura e cultura delle due sponde” (2008), “Vela libre. Idee e storie per veleggiare in libertà” (2012). Scrive di paesaggio, ecologia e cultura del mare su quotidiani, su riviste e sul blog www.maregratis.blogspot.com