Rio +20: tra senso di fallimento e frustrazione dell’ONU. Ma la green economy non si ferma
Alla fine, dopo l’impegno delle Nazioni Unite, il lungo e paziente lavoro degli sherpa internazionali e i 150 milioni di dollari spesi per mettere in piedi la macchina organizzativa, il summit di Rio+20 sullo sviluppo sostenibile non ha dato i risultati sperati. Il documento siglato dai 191 capi di stato, dal titolo “Il futuro che vogliamo”, contiene infatti numerose dichiarazioni di principio, ma nessun obiettivo concreto e vincolante. Nella dichiarazione conclusiva c’è infatti l’impegno a difendere la necessità di un’economia verde, ma, a causa delle resistenze dei Paesi in via di sviluppo, che temono un protezionismo mascherato dei ricchi, si evita qualsiasi “regola rigida”, rispettando anzi “la sovranità nazionale” di ciascun stato.
Un fallimento che per le Nazioni Unite è piuttosto frustrante. I negoziatori hanno preparato per anni il summit, in cui erano riposte le speranze di molti, e alla fine il risultato ha deluso le aspettative di osservatori internazionali e Ong. Un gruppo di associazioni, esperti, imprenditori ed economisti, in una lettera al segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, ha scritto che il vertice “passerà alla storia come una conferenza Onu che propone alla società mondiale un testo segnato da gravi omissioni, che mettono a rischio la preservazione e la capacità di ripresa socio-ambientale del pianeta”. Lacune certamente non attribuibili solo alle Nazioni Unite, ma che nei corridoi del Palazzo di Vetro pesano come macigni.
La delusione per un documento considerato da molti “senz’anima”, era del resto evidente già nelle parole del Segretario Generale, che in apertura del vertice, il 20 giugno, non aveva usato mezzi termini: “Molte proposte – aveva detto Ban Ki-Moon – erano ambiziose, ma ogni Paese ha i suoi interessi in gioco. I negoziati sono stati molto difficili. Personalmente, mi aspettavo un documento finale più ambizioso”.
Ma perché, nonostante la buona volontà degli organizzatori, questi grandi vertici, che generano aspettative globali altissime nella popolazione mondiale, non funzionano? Le cause, a quanto pare, vanno ricercate proprio nell’esistenza di troppi interessi contrapposti, troppi veti incrociati, timori e diffidenze. In sintesi: l’ONU e gli sherpa fanno coscienziosamente il loro lavoro, ma quando gli accordi arrivano sul piatto dei leaders politici tutto si ferma e si complica. Un funzionario Onu, che preferisce rimanere anonimo, ci spiega: “Eventi così importanti sono molto complessi. Il tema dello sviluppo sostenibile richiede un concorso di obiettivi che va molto al di là delle Nazioni Unite”. Il risultato, a Rio, è stato “un documento molto blando, di compromesso, su cui ha influito sicuramente la grave crisi economica e finanziaria. Non ci sono dettagli su meccanismi di attuazione degli obiettivi, committment, finanziamenti”. Per il funzionario Onu, “gli aspetti da considerare sono tanti, a partire dalla pressione demografica sull’ambiente: nel 1992 eravamo 5,5 miliardi, oggi siamo 7 e il trend è di un ulteriore aumento della popolazione mondiale. Serve uno sforzo collettivo: se le persone chiedono di più, devono anche dare di più”. E ai fattori sociali si aggiungono “le forze economiche che muovono il mondo”: “Hanno spinto i negoziati in una certa direzione, perché lo sviluppo sostenibile è ancora oggi una tematica difficile da affrontare”. Se non si sono raggiunti gli obiettivi che ci aspettavamo da 20 anni, in definitiva, ammette l’intervistato “questo è dovuto sicuramente all’Onu, che potrebbe lavorare meglio, ma non esclusivamente. L’Onu è in mezzo a tanti interessi e tendenze, ma ad aver fallito è tutto il sistema. Le Nazioni Unite hanno i loro homeworks, i compiti a casa, ma non siamo gli unici a doverli fare”.
“Rimandata a settembre“, l’Onu i suoi compiti ha comunque già iniziato a farli da tempo, impegnandosi, se non altro, a “razzolare” (oltre che predicare) bene, ovvero a migliorare la sostenibilità interna delle proprie strutture e agenzie. E’ infatti dal 2007, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente, che Ban Ki-Moon ha lanciato la strategia Greening the blue, per promuovere concretamente, tra le diverse agenzie, la cultura della sostenibilità ambientale. Si lavora cioè su una riduzione dei viaggi, da cui derivano il 50% delle emissioni delle Nazioni Unite, sulla gestione delle strutture e degli acquisti.
Anche alla sede ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) di Torino, uno dei più importanti centri Onu in Italia, da noi visitato, il lavoro non si è certo fermato per causa di Rio e la messa in pratica dei principi di sostenibilità ambientale prosegue. Giuseppe Zefola, responsabile dell’Internal Administration Service, spiega: “ci stiamo preparando per fare un monitoraggio delle emissioni e abbiamo aderito al programma Eco School della FEE (Foundation for Environmental Education, Ndr), per ottenere la bandiera verde per il nostro campus sulle rive del Po”. Un’attenzione particolare viene posta anche sulla comunicazione interna (“se riusciamo a canbiare alcune piccoli abitudini dei colleghi in modo più sostenibile, è già un primo risultato”) e sulla formazione. “Organizziamo corsi introduttivi sulla green economy che coinvolgono sia colleghi dell’Agenzia, sia funzionari di governi, sindacati e organizzazioni patronali. Abbiamo anche un programma di formazione sulle strategie e le azioni locali per il lavoro verde, rivolto in modo particolare agli amministratori locali”, spiega Valter Nebuloni, responsabile Employment Policies and Skills Development della sede torinese dell’ILO. Sul tema sono infatti attive tutte le agenzie Onu: ognuna cura direttamente la formazione e la divulgazione delle tematiche “verdi”. La corsa della green economy non sembra dunque fermarsi nemmeno nel sistema Onu. Nemmeno dopo la batosta brasiliana.
Veronica Ulivieri