Da Durban una nuova roadmap per il clima
Alle sei e mezza del mattino di domenica, dopo quasi trentasei ore di tempi supplementari, si è conclusa la diciassettesima Conferenza delle Parti (COP17) sul clima, a Durban. Mai come quest’anno il summit è stato ricco di colpi di scena, tanto che alle due di notte il risultato finale era ancora incerto: l’Europa, attraverso il Commissario al clima Connie Hedegaard, spingeva per inserire nel testo finale l’indicazione che costituisse un trattato “legalmente vincolante”; l’India rispondeva chiedendo come fosse possibile pensare di includere questo elemento senza avere un quadro più chiaro; la Cina accusava i Paesi industrializzati di non fare abbastanza. Alla presidente sud africana del summit non era rimasta altra chance che quella di far incontrare i delegati europei e indiani per un faccia a faccia finale. Il compromesso è stato poi suggerito dalla delegazione brasiliana, e ha portato alla firma di un accordo “con valore legale”.
L’annuncio del nuovo accordo è stato accolto da un lungo applauso. Nell’accordo, si prevede una nuova fase ponte per il Protocollo di Kyoto, che coprirà il periodo 2013-2020. Dal 2020 gli Stati entreranno in un nuovo trattato internazionale: la novità storica del nuovo trattato è che finalmente tutti i Paesi dell’UNFCCC si sono impegnati a un accordo legalmente vincolante per la riduzione delle emissioni. Il rovescio della medaglia è che ancora non si sa quali saranno gli impegni che i Paesi decideranno di assumersi sotto il cappello del nuovo trattato, né le modalità operative. Si prevede solo una nuova roadmap per arrivare a questo risultato entro il 2015, attraverso un nuovo gruppo di lavoro denominato Ad Hoc Working Group on the Durban Platform for Enhanced Action.
Come già accaduto in passato, i delegati applaudono al successo del summit, mentre le associazioni ambientaliste ricordano come a questo passo avanti nelle negoziazioni non corrisponda un miglioramento reale, visto che non sono state ancora prese decisioni riguardanti i tagli delle emissioni di gas serra necessari a evitare gli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici sull’uomo. Il nuovo trattato vincolante e inclusivo è sicuramente un progresso importante della diplomazia climatica, ma necessiterà di essere riempito di contenuti.
Tre gli elementi che hanno permesso di arrivare a questo importante, seppur parziale, risultato. Il primo è stato la svolta storica del governo cinese, che a metà della seconda settimana di negoziazioni ha annunciato per la prima volta di essere disponibile a trattare impegni di carattere vincolante. Ha sottoposto questa apertura ad alcune condizioni, tra cui la richiesta che nel trattato successivo sia rispettato il principio dell’UNFCCC della “responsabilità comune ma differenziata” e che i Paesi industrializzati rispettino gli impegni presi precedentemente, anche in proposito dei 100 miliardi di dollari promessi durante le COP di Copenhagen e Cancun per il Green Climate Fund, il fondo per il clima.
In secondo luogo, c’è da considerare il grande lavoro della diplomazia europea, capeggiata dalla Commissaria Hedegaard: l’accordo che è stato approvato era nato proprio dall’Europa, che aveva cercato prima l’appoggio della coalizione AOSIS, Alliance Of Small Islands States, e dei LDC, Last Developed Countries. Intorno a questo nucleo centrale era poi cresciuto il consenso, fino a includere il Brasile e tutti gli altri Stati.
Infine c’è da considerare l’ottimo contributo del Segretario Generale dell’UNFCCC, Christiana Figueres, che ha condotto i lavori incentivando il raggiungimento dell’accordo e non perdendo mai la speranza di arrivare a una decisione, nemmeno dopo quattordici giorni di serrate negoziazioni che sembravano senza una via di uscita. “Tutto sembra impossibile, finchè succede”, aveva detto in apertura del summit di Durban, citando Nelson Mandela; l’ha potuto ripetere felicemente anche nel finale.
Per chi si aspettava un accordo “conclusivo” della questione climatica a Durban, rimarrà certamente deluso, perché non siamo ancora arrivati a impegni concreti, ma solo a una roadmap. Le negoziazioni sul clima sono complesse, è difficile trovare un’unità tra delegati di 186 Paesi, dagli Stati Uniti e l’Europa alla Cina, India e Pakistan, Siria e Israele, per citarne alcuni. Si procede a piccoli passi, mentre il clima sta già cambiando e ne stiamo sperimentando le prime conseguenze. E’ una lotta contro il tempo, ben rappresentata dalle ultime, frenetiche, ore di Durban.
Veronica Caciagli