I sette peccati capitali del greenwashing
La comunicazione pubblicitaria punta sempre di più sul “green” e sulla sostenibilità per promuovere i prodotti. Ma come distinguere aziende e brand seriamente rispettosi dell’ambiente da quelli che si nascondono dietro una semplice pennellata di verde?
Ovvero, come individuare una società o un’organizzazione che impiega più tempo e denaro ad affermare di essere verde, attraverso la pubblicità e il marketing, piuttosto che a mettere in atto misure concrete che riducano al minimo l’impatto ambientale dei propri prodotti e dei propri processi produttivi?
Sono i questiti che, da alcuni anni, pone l’agenzia canadese di marketing ambientale Terra Choice, in procinto di rilasciare il terzo report della serie “I sette peccati capitali del greenwashing“, a cui è dedicato un sito.
Tra il 2008 e il 2009 i ricercatori di Terra Choice, sguinzagliati tra Canada, Stati Uniti, Australia e Inghilterra, hanno raccolto una significativa base dati, andando ad analizzare le etichette dei prodotti e le informazioni aggiuntive comunicate dalle aziende impegnate nel green marketing.
Nella sola America del Nord sono stati raccolti e registrati 2.219 prodotti con 4.996 claim (o slogan) ambientali. Di questi il 98% è caduto in almeno uno dei sette peccati. Ma vediamo quali sono.
Il caso più diffuso riguarda gli annunci che evidenziano una sola caratteristica, pensando che sia sufficiente a caratterizzare come sostenibile l’intero prodotto. L’esempio portato è quello della carta, che non per il solo fatto di provenire da foreste ben gestite e certificate può dirsi “ambientalmente preferibile”, senza tener conto anche del processo di produzione, delle emissioni serra e dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua, tutti elementi altrettanto significativi.
Un secondo tipo di errore è la mancanza d’informazione e prove documentabili a supporto di un claim. Come nel caso di prodotti che vantano percentuali di prodotto riciclato senza fornire certificazioni esterne o elementi oggettivi di verifica.
La terza tipologia di messaggi scorretti è quella della vaghezza di significato. Un claim come “All natural” vuol dire ben poco se si tiene conto che anche l’arsenico, la formaldeide, l’uranio e il mercurio sono “naturali” – ma velenosi!
C’è poi il peccato di irrilevanza, per cui un messaggio pubblicitario può essere vero, ma non significativo per poter consentire realmente al consumatore di operare una scelta consapevole sul prodotto e sull’azienda.
Quinto: il cosiddetto minore dei due mali, che tende a enfatizzare un dato vero, ma significativo unicamente all’interno di una categoria di prodotti, di per sè fortemente impattanti sull’ambiente. Che un’auto sportiva abbia i consumi più ridotti della sua categoria non è un grande vantaggio per l’ambiente quando quella tipologia di vetture consumi mediamente una quantità di carburante doppia o tripla rispetto ad un’utilitaria.
Ci sono poi aziende che rilasciano claim semplicemente falsi, ma questo fortunatamente risulta il peccato meno diffuso.
Mentre la new entry, che ha portato la lista dai precedenti sei peccati a sette, è l’autocertificazione della propria sostenibilità, con l’applicazione sul packaging di eco-etichette fasulle, che non riccorrono a terze parti o enti di certificazione riconosciuti per la verifica dei dati.
L’agenzia italiana Greenbean ha analizzato il fenomeno dal punto di vista nazionale, rilevando che su 83 aziende italiane che, tra il 2008 e il 2010, hanno utilizzato messaggi eco-sostenibili, ben 53 avrebbero messo in atto strategie di “greenwashing”. Rispetto al modello canadese, vengono inoltre individuati due peccati differenti: quello di indirizzare l’attenzione sulla propria generosità nel finanziare progetti socio-ambientali (pensando che questo renda di per sé una marca sostenibile) e l’utilizzo di visual che richiamano genericamente il rispetto per l’ambiente, ma che non hanno alcuna relazione con il prodotto o il brand.
Quanto questi atteggiamenti siano consapevoli è difficile a dirsi. Ciò che è sicuro è che il fenomeno del “greenwahing”, già ampiamente diffuso nei mercati mondiali più evoluti, come quello americano, si sta rapidamente diffondendo anche in Italia, in parallelo alla crescente attenzione del consumatore verso la sostenibilità ambientale.
Andrea Gandiglio e Marco Bobbio