La terza via del vino
Esiste anche per il vino – come per la politica – una terza via che rifugga dagli estremismi opposti del capitalismo industriale e del radicalismo ecologista? E’la domanda che si è posto Giancarlo Gariglio, responsabile della redazione vini di Slow Food e conduttore del Laboratorio “La Terza Via”, organizzato sabato 23 ottobre al Lingotto di Torino in occasione del salone del vino Wine Show 2009.
Un’ occasione di confronto tra i vini di aziende italiane che concentrano i loro sforzi produttivi in un approccio sostenibile alla coltivazione della vite e che, pur nella diversità di stili e di tecniche applicate (dalla coltivazione biologica a quella biodinamica), conservano il denominatore comune della qualità e della forza espressiva dei propri vini, capaci di trasmettere le principali caratteristiche del territorio in cui vengono prodotti. Protagonisti della selezione, operata da Gariglio, un rosé atipico, un bianco d’eccezione e 4 rossi di carattere: il Cerasuolo abruzzese di Valentini, il ribolla Anfora del friulano Gravner, il siciliano dell’Etna Vinupetra di Salvo Foti, i toscani Tenuta di Valgiano e Fontodi e il Dolcetto di Dogliani piemontese di Sandro Barosi. Tutti vini “d’autore”, dove la visione enologica del produttore si ritrova nel bicchiere come la firma di una poesia.
Ma in che senso la viticoltura sostenibile può essere definita una “terza via”? Innanzitutto nell’assenza di fanatismo ma, al contrario, nella capacità di dialogo e avvicinamento tra biologico e progresso viticolo, sulle basi del buonsenso (un buon terreno in un buon clima) e della ricerca d’avanguardia (conoscenze e pratiche agronomiche evolute ed ecocompatibili). Obiettivo: l’equilibrio della misura, ossia una viticoltura consapevole e attuabile che porti come dote – e non come fardello – i valori della tradizione.
Il vino, secondo i fautori di questa via, deve essere il frutto di un processo produttivo agricolo perfettamente integrato nel proprio ambiente dove, “per assicurare la continuità di un agrosistema è indispensabile garantire quella dell’ecosistema che lo circonda” (altrimenti i disagi del secondo si ripercuoterebbero immediatamente sul primo) ma, al tempo stesso, il vino non deve rinunciare al requisito organolettico fondamentale della bontà e deve essere remunerativo per chi lo produce e conveniente per chi lo acquista (tutte le bottiglie presentate costano al massimo 10 euro).
Una visione pragmatica ben espressa in sala da Sandro Barosi che, con la passione genuina del produttore estraneo ai fondamentalismi, illustra la genesi di una scelta alternativa, senza nascondere le difficoltà e i costi del portarla avanti. L’immagine di una vigna fiorita e “vivente” – e non “brulla e morta” – rende la dimensione di soddisfazione, bucolica ma concreta, che motiva l’operato quotidiano di questi produttori. Per Barosi si è trattato inoltre di una scelta di salute, dove la sostituzione (non priva di un’iniziale scetticismo) di prodotti come lo zolfo ricavato dal petrolio con lo zolfo di cava – suggeritagli da un medico allergologo – gli ha consentito di guarire da fastidiosi disturbi respiratori.
La strada della viticoltura sostenibile resta tuttavia riservata, per il momento, a spiriti pazienti e lungimiranti che non temono di impiegare 10 giornate di lavoro a pulire una vigna col decespugliatore quando con il diserbante se ne impiega mezza, che “10.000 euro in più di costi produzione alla fine dell’anno valgono la soddisfazione” e che… anche nel concime sanno trovare poesia. Chapeau!
Andrea Gandiglio