Living Planet Report, i risultati sullo stato di salute della Terra
Quando dici biodiversità, ti sembra solo una parola lunga e astratta. In realtà, senza quella, non avremmo la frutta e la verdura, la legna da ardere, il pesce sulle nostre tavole. Di più: non esisteremmo. L’ipotesi ci sembra remota, e invece il rischio c’è. Perché, tanto per fare un esempio, in Italia viviamo come se a disposizione dell’umanità ci fossero 2,8 pianeti. Per non parlare degli Emirati Arabi Uniti, che pensano in grande, consumando come se le terre fossero 6 (5,9 il Qatar, 4,6 la Danimarca, 4,5 il Belgio e gli Stati Uniti). A dirlo è il Living Planet Report, presentato ieri a Roma dal Wwf: un rapporto biennale sullo stato di salute del pianeta, realizzato dall’organizzazione ambientalista in collaborazione con la Zoological Society di Londra e il Global Footprint Network.
Biodiversità vuol dire innanzi tutto la sopravvivenza delle specie in natura. Centinaia, purtroppo, sono già scomparse. E molte altre sono sulla stessa strada. L’indice delle specie misura, nei paesi tropicali e nelle nazioni più povere, un declino del 60%, con picchi del 70% per le specie di acqua dolce. Nelle zone temperate, va meglio. Ma solo apparentemente: rispetto al 1970, c’è stato un aumento del 29%, «per i migliori sforzi nella conservazione e nel controllo dell’inquinamento e perché deforestazione e cambiamenti di uso del suolo qui sono avvenuti soprattutto prima del 1950». Quindi, spiega il Lpr, se andassimo ancora più indietro nel tempo, ci accorgeremmo che anche le specie delle zone temperate non se la passano molto meglio. «Ormai sono quasi scomparsi pesci come il tonno rosso e lo squalo martello», spiega Eva Alessi, responsabile Sostenibilità del Wwf Italia.
I paesi più ricchi stanno depauperando le risorse di quelli più poveri, mettendo a rischio la diversità di zone molto ricche di risorse naturali. In questo senso, continua Eva Alessi, «una maggiore tutela della biodiversità deve accompagnarsi per forza a una distribuzione più equa delle risorse e dunque a una maggiore giustizia sociale». Gli abitanti di paesi come l’India e il Pakistan hanno un’impronta ecologica pro capite che non supera l’ettaro e mezzo globale pro capite. Ogni abitante, cioè, consuma in un anno un ettaro e mezzo di superficie bioproduttiva, in grado di assorbire rifiuti ed emissioni. In Italia, gli ettari globali necessari pro capite sono quasi 6: consumiamo cioè il quadruplo di pianeta rispetto a un indiano o un pakistano. «La situazione sempre più grave in cui versano i sistemi naturali del pianeta a causa della nostra costante pressione dimostra chiaramente l’insostenibilità dei modelli economici sin qui perseguiti, basati su una crescita materiale e quantitativa continua», sottolinea Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia.
L’estinzione di molte specie non è solo una riduzione della straordinaria ricchezza della natura. E’ un danno a interi ecosistemi, che perdono un anello della catena alimentare, e dunque il loro equilibrio. E incide negativamente anche sui cosiddetti “servizi eco-sistemici”: la fornitura del cibo, la protezione da inondazioni e malattie, l’impollinazione, la depurazione di aria e acqua, la rigenerazione del suolo. Tutte prestazioni che la natura ci garantisce gratuitamente e di cui non possiamo fare a meno. Ma che ogni giorno mettiamo a rischio depauperando l’ambiente senza restituire niente in cambio e investire nella rigenerazione dell’ecosistema.
Un passo avanti sarebbe far entrare l’ambiente nell’agenda politica internazionale. Certo, il tema è già caldo, ma quando si arriva al tavolo delle trattative tra le potenze mondiali, i risultati non si vedono. «La natura – dice Eva Alessi – dovrebbe diventare una voce della contabilità nazionale. Ogni paese dovrebbe cioè calcolare quanto capitale ambientale è stato usato quell’anno e stanziare anche un budget da re-investire nella natura», in modo da favorire la rigenerazione degli eco sistemi ed evitare il collasso ambientale. Ma come convincere concretamente i paesi ricchi? «I governi devono essere messi di fronte alle criticità, quindi per questo gli scienziati dovrebbero essere più pratici nel dare informazioni. E poi, i “potenti” devono affrontare i problemi dell’ambiente come questioni globali, e non in un’ottica di battaglia tra stati concorrenti», spiega Riccardo Valentini, professore di Ecologia Forestale all’Università della Tuscia e chairman del Global Terrestrial Observing System.
Il prossimo appuntamento con i grandi è in Giappone, alla Conferenza di Nagoya. Dove, spiega Valentini, probabilmente si approverà un progetto per ridurre la deforestazione tropicale. Di più, garantisce il professore, per ora non possiamo aspettarci.
Veronica Ulivieri