Viaggio nella terra del rugby, tra vecchie miniere e meraviglie naturali
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi due estratti del libro “Meta Nuova Zelanda. Viaggio nella terra del rugby“, di Elvis Lucchese, giornalista appassionato della palla ovale. Il volume, edito da Ediciclo, è dedicato alla Coppa del mondo di rugby e al Paese patria degli All Blacks. I due passi sono tratti dal quarto capitolo del libro, intitolato “Canterbury” e ambientato nell’omonima regione neozelandese.
Il viaggio verso ovest ci fa inoltrare in una Nuova Zelanda sempre più selvatica. La storia qui è storia di miniere. Una spianata erbosa fra i canyon coincide con l’antica Lyell. Aveva avuto più di tremila abitanti, un secolo dopo nulla è rimasto delle costruzioni in legno della città. Tutto cominciò a metà Ottocento, quando cercatori di fortuna vennero a sapere, da maori del luogo, dell’esistenza di filoni aurei nella roccia. All’oro i nativi non attribuivano alcun valore. Il materiale pregiato era per loro pounamu, una sorta di giada chiamata greenstone dai coloni, con la quale forgiavano armi e ornamenti. Nel 1863 un centinaio di minatori di diverse nazionalità era già piombato a Lyell dall’Australia. Nel 1869 i due ticinesi Antonio Zala e Giorgio Zanetti scoprirono un filone ampio quasi cinque metri, ben custodito nel quarzo. La miniera avrebbe restituito oro fino al 1912, facendo di Lyell un centro di una certa importanza, con una banca, una stazione di posta, due scuole, due chiese, parecchi fra alberghi e bordelli, e anche un giornale locale.
E poco oltre in direzione Greymouth, a Pike River, si è consumata a novembre l’altra grande tragedia neozelandese con il terremoto, quando un’esplosione in una miniera di carbone causò ventinove vittime. Gran parte delle cavità scavate dai pionieri sono oggi abbandonate e di notte servono uno spettacolo stupefacente a chi abbia voglia di inoltrarsi fra i tunnel. I glow worms, presenti solo in Nuova Zelanda e Australia, sono minuscoli insetti luminosi che colonizzano le pareti delle miniere. L’effetto è quello di un cielo stellato, di molti cieli stellati, come un incantesimo.
Chilometro dopo chilometro il paesaggio si rivela meno antropizzato e sempre più grandioso e imprevedibile. Le meraviglie naturali dell’Isola del Sud, e in particolare della sua West Coast, fanno scivolare nell’ombra tutto quanto visto finora, che pure avevamo già giudicato meraviglioso. Il rumore dell’acqua delle Te Waikoropupu Springs (Pupu Springs per semplicità), risorgive purissime dove per i maori avevano sede ambigue divinità femminili. Il tramonto sulle dune infinite di Farewell Spit. La furia sublime degli elementi sulle rocce di Punakaiki. Le sfumature di azzurro fra i canyon di granito di Hokitika. Dove comunque i sentieri sono ingegnosamente studiati per essere accessibili alle sedie a rotelle. (…)
Slow food alla neozelandese
Ancora sull’irresistibile ironia dei kiwis. Hokitika è famosa per la giada, per le ex miniere d’oro e soprattutto per il Wildfoods Festival, che ogni anno ai primi di marzo attrae in questa cittadina della West Coast un buon numero di visitatori (secondo gli standard neozelandesi, naturalmente). Tutto cominciò alla fine degli anni Ottanta, quando nel paese si era diffusa un’attenzione verso il cibo e il vino dai toni piuttosto snob. La reazione dei coasters di Hokitika, che gli altri neozelandesi considerano bizzarri e un po’ primitivi (ed è tutto dire), fu questa rassegna di vigorosi cibi rustici, retaggio dei duri tempi andati, cioè una gran presa per il culo di tutte le mode enogastronomiche di città. Ventidue anni dopo, il festival è ormai un appuntamento consolidato. Le pietanze servite negli stand vanno dall’opossum arrosto alle “ostriche di montagna” (cioè testicoli di agnello), dagli scorpioni crudi o cotti al sushi con vermi. Attrazioni delle edizioni recenti sono state le huhu grubs, larve vive da infilzare con uno stuzzicadenti, e per i più coraggiosi la bevanda energetica Powerhorse, a base di sperma di cavallo.
Passaggio a est
Nella West Coast si sono conservate consistenti porzioni della foresta vergine come al loro arrivo la trovarono i maori, e più tardi i coloni britannici. Fitta boscaglia percorsa da ruscelli, fra faggi e le numerose varietà di felci arboree, le cui foglie e i cui rami si sviluppano srotolandosi come frattali. È una foresta dall’aspetto primordiale, come quella che nelle illustrazioni fa da sfondo ai dinosauri, o come quella, allo stesso tempo ancestrale e futuristica, del film Avatar. James Cameron, non a caso, ha girato in parte in Nuova Zelanda e i Nav’i, gli abitanti spilungoni del pianeta Pandora, parlano una lingua modellata dal maori. Nei parchi, fortunatamente sotto lo sguardo protettivo di ranger e volontari, ci si può imbattere anche nel tronco argenteo di un kauri, uno dei più imponenti alberi del mondo e dei più antichi (risale al Giurassico). Più di un milione di ettari di foreste di kauri ricopriva l’Isola del Nord fino a quando non vennero scoperte le virtù del suo legno, ideale per la costruzione di navi e case. Nonostante le difficoltà che comportavano il taglio e il trasporto di tronchi cresciuti in più di mille anni a un diametro di tre-quattro metri, i coloni procedettero con efficienza al disboscamento per un secolo, fino agli anni Trenta, quando la risorsa era ormai esaurita. La stessa sorte dell’ibirapitanga che i portoghesi chiamarono pau brasil, il pernambuco che ha dato il nome al paese sudamericano e oggi ridotto a pianta ornamentale protetta. Il legno kauri ha contribuito all’espansione urbana di Sydney, alla ricostruzione di San Francisco dopo il terremoto del 1906 e alla ricchezza dei neozelandesi (pakeha), i quali negli anni Venti potevano vantare uno dei più alti livelli di benessere al mondo. Allora, quando grazie alla rivoluzione della refrigerazione la carne e i prodotti dell’allevamento poterono essere esportati, la Nuova Zelanda poteva definirsi “the daily farm of the Empire”, il caseificio dell’Impero.
Effettuiamo in treno il passaggio dalla West Coast a Christchurch, sul fronte opposto. Si scavalla a settecento metri di altezza Arthur’s Pass, dopo un paio d’ore di incontaminato paesaggio montano. La purezza dell’aria rende nitidi i dettagli di cime lontane centinaia di chilometri. Oltre i monti, i nomi delle prime località incontrate, cioè Sheffield e Oxford, ribadiscono le radici britanniche. Si distendono le Canterbury Plains, le pianure di Christchurch.