Delitti contro l’ambiente: un’odissea all’italiana
Dopo l’intervento inaugurale dell’Avv.Gianluigi Ceruti prosegue, su Greenews.info, la serie di commenti giuridici sui temi caldi del diritto ambientale. Nella puntata di oggi pubblichiamo l’approfondimento scritto dall’Avv. Paola Balducci (Università del Salento) per la Fondazione UniVerde, in occasione del convegno “L’industria del riciclo e la Green Economy” del 6 luglio 2011, in cui si racconta l’odissea per l’affermazione del diritto penale dell’ambiente in Italia.
Lo studio del diritto penale dell’ambiente riguarda quell’insieme di norme penali che rappresentano uno strumento di tutela contro i comportamenti pericolosi o dannosi per l’ambiente e potenzialmente lesivi del diritto alla salute dei cittadini. Non v’è, infatti, chi non veda i punti di contatto tra la tutela dell’ambiente e la salvaguardia del benessere della collettività sotto il duplice profilo della protezione del diritto alla salute e del diritto all’integrità fisica delle persone.
Non è senza rilievo ricordare che, soprattutto negli ultimi anni, l’interesse verso l’ambiente e la sua preservazione per le generazioni future si sia progressivamente radicato nella coscienza sociale, fino al punto da rendersi auspicabile il rafforzamento della tutela penale di tale bene giuridico.
Il tema dell’ambiente, infatti, a lungo ignorato dalla dottrina penalistica italiana, ha assunto nel corso degli anni estrema attualità, sia al fine di ricostruire una nozione di riferimento, sia al fine di individuare il più corretto modello di incriminazione da utilizzare in sede penale.
Nella legislazione italiana la tutela dell’ambiente è stata sempre disseminata (ed in parte lo è tuttora) in numerose leggi speciali, ciascuna volta a reprimere fenomeni specifici di aggressione all’ l’acqua, all’aria, al suolo, al sottosuolo, al paesaggio. Più ardua diventa la ricerca se si persegue l’obiettivo di trovare una norma che si occupi espressamente della tutela dell’ambiente nella sua genericità ed unità. Sino all’entrata in vigore del d.lgs. 152/2006 (T.U. Ambiente) non esisteva, infatti, nel nostro ordinamento alcuna definizione legislativa, neppure a livello di legge costituzionale, del concetto giuridico di ambiente e anche oggi le definizioni del cosiddetto. Testo Unico Ambientale, sono alquanto parziali.
Anche nella nostra Costituzione manca un esplicito richiamo al concetto di ambiente – richiamandosi genericamente i principi contenuti negli artt. 2, 9 e 32. Il primo riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità; il secondo riguarda la tutela del paesaggio; l’ultimo, infine, riconosce la salute come diritto fondamentale dell’individuo.
In particolare, l’elaborazione giurisprudenziale, sia costituzionale che ordinaria, ha portato, da un lato, a riconoscere e garantire l’ambiente – non come valore in sé, ma come bene strumentale per la protezione di un bene finale - all’interno dell’art. 32 della Costituzione, che identifica la salute come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività.
In generale, va comunque osservato come non sia sempre facile trovare un equilibrio tra le esigenze legate alla produzione industriale, la salvaguardia dell’ambiente e la protezione del diritto alla salute. Per questo, ad esempio, il legislatore – mentre autorizza talune lavorazioni industriali potenzialmente rischiose o dannose – prevede il rispetto di precise normative di settore dirette ad escludere o a ridurre l’impatto sull’ambiente o sulla salute dei cittadini, come nel caso del trattamento dei rifiuti.
Purtroppo, trattare questi rifiuti ha un alto costo per le imprese, al punto che alcune di esse affidano (talora inconsapevolmente) lo smaltimento di queste scorie a organizzazioni illegali, le quali operano aggirando fraudolentemente i controlli di legge. Peraltro, l’abbandono indiscriminato di rifiuti nell’ambiente comporta non solo un rischio immediato, ma anche un pericolo più a lunga scadenza: attraverso la contaminazione delle falde acquifere o dei terreni agricoli vi è, infatti, il concreto rischio che pericolose sostanze si insinuino all’interno della catena alimentare, giungendo fino al consumatore finale.
Per questa ragione vi è la necessità di prevedere – nei casi più gravi – sanzioni dissuasive contro il traffico dei rifiuti e la frode ambientale. A questo proposito, una delle poche fattispecie delittuose, finora assurta a simbolo di lotta contro le cosiddette eco-mafie è stato il reato di “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, previsto dall’art. 260 del Codice dell’Ambiente, unica figura criminosa denotata da una certa efficacia e dissuasività. Ai sensi di questa norma viene punito con la reclusione da uno a sei anni “Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti …”.
L’Art. 260 Cod. Ambientale costituisce dunque una norma importante, ma isolata, se si considera che le altre disposizioni penali destinate a tutelare interessi che si richiamano all’ambiente, si identificano in illeciti di natura prevalentemente contravvenzionale. Questo criterio di tutela appare, tuttavia, inidoneo a prevenire la commissione di crimini contro l’ambiente. Il modello di illecito contravvenzionale è infatti, per sua intrinseca natura, più debole rispetto al modello delittuoso. Non solo perché è prevista una prescrizione breve, ma anche perché le sanzioni “miti” in esse previste non rappresentano un’autentica minaccia per gli inquinatori. Il rischio di perdita della libertà personale, in caso di commissione di un illecito contravvenzionale, è di per sé molto attenuato, in quanto le contravvenzioni – per dirne una – non ammettono l’applicazione delle misure cautelari coercitive.
Si iniziano così a delineare due ordini di problemi che affliggono i reati ambientali: da un lato – salvi casi isolati, come per il delitto di Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti – vi è una nota mancanza di effettività e una scarsa idoneità sotto il profilo della prevenzione generale e speciale; dall’altro, si nota l’assenza, nel codice penale, di norme finalizzate a tutelare l’ambiente. Il codice penale, com’è noto, non contiene un Titolo ad hoc. All’interno del codice ritroviamo solo un Titolo dedicato ai “Delitti contro l’incolumità pubblica”, in cui però le diverse fattispecie (es. incendio, inondazione, disastro, avvelenamento o epidemia) sono destinate a tutelare l’incolumità pubblica come bene riferito alla sicurezza della vita e all’integrità fisica della collettività nel suo insieme o di una sfera indeterminata di persone.
Altre fattispecie, come la contravvenzione di cui all’art. 734 c.p., che punisce la distruzione o il deturpamento di bellezze naturali, appaiono caratterizzate da un ridotto campo applicativo e da una debole sanzione penale (“Chiunque, mediante costruzioni, demolizioni, o in qualsiasi altro modo, distrugge o altera le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell’autorità, è punito con l’ammenda da euro 1.032 a euro 6.197”).
In questo contesto, particolare importanza riveste la Direttiva Comunitaria 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente: per la prima volta, infatti, un atto comunitario ha posto espliciti obblighi di incriminazione in capo agli Stati membri, imponendo entro dicembre del 2010 (termine peraltro disatteso) di sanzionare con “sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive”, una nutrita serie di condotte offensive dell’ambiente, distinte in 8 gruppi, in base alla tipologia di aggressione (sostanze o radiazioni ionizzanti, deposito di rifiuti), al suo oggetto (animali selvatici protetti, habitat naturali) e alle sue conseguenze (decessi, lesioni gravi, danni rilevanti alla qualità dell’aria).
La stragrande maggioranza della dottrina aveva desunto dall’obbligo citato la necessità di introdurre nel nostro ordinamento un nuovo assetto di tutela penale dell’ambiente, con l’abbandono di quello tradizionale, inefficace ed obsoleto. Lo schema di decreto legislativo predisposto dal governo e reso pubblico nei mesi scorsi ha deluso le aspettative di chi si aspettava un significativo cambio di paradigma nella tutela penale dell’ambiente, compiendo – quanto meno rispetto all’incriminazione delle persone fisiche – una non scontata scelta di conservazione dell’esistente. Si prevede infatti l’introduzione, nel codice penale, di due soli nuovi reati – uccisione/possesso di specie animali selvatiche/vegetali protette (art. 727 bis c.p.) – danneggiamento di habitat (art. 733 bis c.p.). A dispetto quindi delle previsioni il legislatore non introduce nuove fattispecie di inquinamento con danni rilevanti per le matrici ambientali o causative di decessi o lesioni gravi, sul modello di quanto previsto nella direttiva. La scelta della pena che contraddistingue i reati introdotti dal legislatore – che sono tutti contravvenzionali – comporta poi note conseguenze di disciplina processuale (precludendo intercettazioni) e sostanziali (prescrizione più breve, oblazione) che contribuiscono alla loro mancata applicazione o alla loro scarsa afflittività in concreto.
Potenzialmente rivoluzionaria è invece la scelta compiuta – sempre in adempimento della direttiva – con riferimento alla responsabilità degli enti rispetto ad alcuni reati ambientali compiuti a loro vantaggio o interesse. Proprio sul tema della responsabilità degli enti mi preme segnalare che l’esigenza di responsabilizzazione delle persone giuridiche ha conosciuto, nel nostro ordinamento, diverse battute d’arresto. Ricordo, ad esempio, che nella Legge n. 300 del 2000, si prevedeva, all’articolo 11, una delega al Governo per la disciplina delle persone giuridiche sia in relazione alla commissione dei reati previsti dagli articoli 589 e 590 del codice penale, commessi con violazione delle norme sugli infortuni sul lavoro, sia in relazione alla commissione dei reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio, punibili con pena detentiva non inferiore nel massimo ad un anno anche se alternativa alla pena pecuniaria.
Come molti ricorderanno, all’atto di emanare la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti di cui al d.l.vo n. 231/2001, il Governo evitò di esercitare la delega in materia di infortuni sul lavoro e quella in materia ambientale. Soltanto nel 2007, è stata colmata la lacuna per quanto concerne le ipotesi di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi o gravissime commesse in violazione delle norme antinfortunistiche (art. 25 septies d.l.vo n. 231 del 2001, così come modificato dall’art. 9 della legge n. 123 del 2007).
L’estensione ai reati ambientali della responsabilità degli enti, secondo i ben noti principi del d.lgs 231/2001 va salutata senz’altro con favore, posto che la maggior parte di essi – e, in ogni caso i più gravi – sono normalmente commessi nell’ambito di attività imprenditoriali. Dal punto di vista pratico, poi, la nuova disciplina della responsabilità degli enti e lo “spauracchio” delle sanzioni pecuniarie (che sono particolarmente gravose) nonché di quelle interdittive (che possono arrivare fino all’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività) spingerà le aziende all’adozione di modelli organizzativi idonei a prevenire i reati ambientali.
Poala Balducci*
* Avvocato e docente dell’Università del Salento