Spina4: il sogno grigio di una crisalide che vorrebbe diventare farfalla
Proseguono, con il cammino tra i docks Dora e la Spina4 a Torino, le “divagazioni cantautoriali di mobilità elementare” di Orlando Manfredi, in arte Duemanosinistra, a spasso per le città italiane e straniere alla ricerca della densità di significato – umano e ambientale – dei luoghi che ci circondano
“Quand’ero piccolo m’innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani”. Eccolo un bello, bellissimo paradigma di divagazione, dietro a una “Coda di lupo”: desiderio ed esperienza, progetto ed improvvisazione che corrono insieme. Da ragazzino te ne stai a scoprire pezzetti di mondo, angoli di conoscenza, con l’impressione di assimilare tutto, con quella sete spietata che però – una volta trovata una fonte – sospende il tempo, tant’è dolce il naufragare in questo o quell’altro mare. Se penso a me, senza quel divagare, il tempo non sarebbe svaporato dalle dure trincee dei banchi di scuola – poco gloriose, a onor del vero – agli scenari bucolici ma vorticosi, placidi ma visionari dell’ineffabile “Astral Weeks” di Van Morrison, o agli inni fragili di Neil Young, o alle invenzioni impeccabili di gomma e anima dei fab four, tra i vetri tersi di un appartamento della classe media e lo squallore delle cantine dei docks Dora, ai tempi del mio primo lunghissimo apprendistato al rock di base.
Affittavamo uno scantinato che sembrava una gigantesca manica sotterranea, battezzato Diskarica Abusiva, dal nome di una nota compagine mod-ska dei tempi. Comunque – credetemi – il nome non rende abbastanza l’idea. Sotto una luce perennemente fioca, ammuffivamo come formaggi per palati difficili, con una percentuale di umidità del duecento per cento e un freddo siberiano, con le chitarre imperlate dalla condensa e abiti che trattenevano una specie di umore torbato, misto di polvere, muffa, alcool, tabacco e tacerò il resto, in rispetto ad amici e famiglie. Correvano i primissimi tempi della vita “parrandera” dei docks Dora, quando furono teatro di un piccolo ghetto del divertimento incontrollato (locali, locali, locali in quell’universo postindustriale che ci rendeva così orgogliosamente berlinesi illegittimi). Riemergevamo dalla cantina tra le due e le quattro del mattino e, intorno a noi, nel cortile antistante i docks, vedevamo aggirarsi torme d’esseri quasi umani in stati alterati di coscienza. Noi avventurieri di un rock immaginario, già irrimediabilmente fagocitati nelle deliziose malinconie cantautorali – gli abiti puzzolenti e il passo da zombie, rincoglioniti da ore ed ore di decibel di cavalcate soniche – tiravamo dritto attraversando la fauna schiumante della movida, e giocavamo la nostra parte di extraterrestri, almeno quanto loro, gli esseri quasi umani, i “parranderi”, gli sballoni.
I docks Dora, autentico pezzo di storia della città di Torino, sono stati, così, un pezzo di storia anche per me, per diverse decine di lavoratori, e diverse centinaia di perdigiorno. Oggi la zona dei Docks è un punto cardinale della Spina4, area di riqualificazione urbana, particolarmente controversa e cruciale per il suo ruolo strategico di porta Nord della città e di interscambio tra le vie d’accesso. Ultima parte del progetto più ampio della Spina Centrale (la via ferroviaria interrata che taglia in due le città e la attraversa da Nord a Sud, che negli ultimi dieci anni ha cambiato volto di Torino), la Spina4 si porta appresso la fama di pecora nera, se paragonata alle sorelle spine (vedi mio precedente “From Santiago to Torino. Orlando a spasso lungo la Spina3″). Certo quest’area non è stata oggetto, al pari delle altre della Spina Centrale, di impellenze trasformative, finendo per essere rubricata come no man’s land, area di proroga, di tempi, denari, idee. Spina4 può attendere, insomma. Eppure, i piani urbanistici che determinano le linee guida, le funzioni e le forme della futura Area Nord di Torino annoverano la Spina4 come capitolo di fondamentale importanza e primo esempio di vera integrazione tra progetto infrastrutturale e progetto urbano: per un sottosuolo che diventa canale rapido per il trasporto di merci e persone (passante ferroviario e Linea 2 della Metropolitana), un suolo che viene pensato a priori come reticolo di possibilità eco-sostenibili, produttive e sociali. Quando l’operazione fosse conclusa, un parco lineare lungo 2 chilometri correrebbe al di sopra delle gallerie della nuova linea della metropolitana, collegando le zone di Spina4 e Scalo Vanchiglia e, infine, il parco Sempione ai parchi fluviali della città (Stura, Dora, Colletta). Ma tutto questo, al momento, è nei sogni di un demiurgo buono e dei cittadini fiduciosi. Sembra che manchino i soldi. E, temporeggiando il giusto ma non troppo, procedono i lavori di scasso, nella speranza che possano venire un giorno conclusi.
Prendo la mia destinazione da Madonna di Campagna, borgata che unisce idealmente le Spine 3 e 4. Con un certo ardimento, mollo la bici in via Giachino. E qui, sorpresa: mi trovo immerso in un’atmosfera da borgo, riprodotta in maniera moderna in una specie di cosmo interculturale. Famiglie e bambini, ragazzi, uomini al riposo del dopolavoro. Quasi tutti stranieri. La via è attraversata al centro un largo camminamento pedonale. Si apprezzano piazzole attrezzate, con panchine, prato, area giochi.
Dalla Stazione Dora sul rotondone di Piazza Baldissera si entra in Spina4. Arrivo su Corso Venezia, e vado al passo verso i leggendari Docks Dora. All’ingresso ci troverò lui, il solito guardiano da far accapponare la pelle. Sempre lo stesso, fin dai tempi dell’apprendistato nelle cantine. Dotato di un linguaggio monosillabico composto da tre espressioni fondamentali (tipo Clint Eastwood degli esordi): poco minaccioso, minaccioso, molto minaccioso, e corroborato dalla presenza di un cane, addestrato a tradurre in latrati ognuna delle tre espressioni fondamentali. Ma – come scrisse qualcuno – chi sorveglia il sorvegliante? I club, i drink bar, i circoli della notte non ci sono più ma i docks sono sempre uguali, perché a me sembrano sempre inconfondibili. Al di fuori della prima cinta daziaria, vedono la luce nel 1912 i docks, i magazzini per lo smistamento delle merci, lungo la ferrovia per Milano (questa ed altre vie di fuga vengono chiamate alla fine dell’Ottocento “barriere”, da cui Barriera di Milano). Trattasi di tre enormi padiglioni paralleli in calcestruzzo. Ora continuano ad essere zone di deposito merci, discount all’ingrosso, sedi di laboratori artigiani, e studi professionali di Music Production, Fotografia, Grafica ecc.
Tra la via Valprato, Corso Vigevano e via Cigna, spicca il grosso cantiere del Parco Spina4: una delle riconversioni strategiche dell’intera area. Il lotto, in gran parte occupato in precedenza dalle officine della Iveco-Telai, sarà riconvertito in parco urbano, secondo una declinazione tra le più felici delle nuove tendenze urbanistiche. Il nuovo parco urbano si configura come un paesaggio integrato tra ruderi post-industriali, aree verdi, spazi di consumo e di produzione energetici ecosostenibili, attraverso il duplice utilizzo paesaggistico e produttivo delle rinnovabili. Cerco di infilarmi tra gli interstizi del cantiere, butto il naso nelle feritorie delle lamiere. L’orizzonte è quello di una “bonifica”. Tutto scavato, spianato, compensato. Al momento c’è la tabula rasa, insomma. E’ già qualcosa. Per il seguito, si vedrà.
La via Cigna segue tutto il cantiere, tra nuove palazzine residenziali e vecchie palazzine popolari, il Casermone della Gondrand e l’odore dell’asfalto e degli scassi. Al fondo di via Cigna saluto il famoso Spazio211, che tanto ha fatto per la programmazione musicale di questa città, con stagioni musicali, sale prove low budget per le band di zona, offerte di insegnamento a prezzi popolari, un festival estivo (Spaziale Festival) di rock indipendente tra i più coraggiosi in Italia, ad animare e ripulire il parco prospiciente. Qui ho visto i Wilco, con il generatore a terra, continuare a suonare per 5 minuti d’orologio, senza un filo di corrente, percuotendo qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano, e centinaia di persone in delirio a spingere sugli accendini.
Al mio ritorno, dal ponte di via Stradella, approfitto di una involontaria vista panoramica del “passante”, appena ricoperto, proprio al centro del corso Venezia. Un’immagine da dopoguerra, come un buco nella città, dove le strade, l’abitato, le auto sono “sospese”, cancellate, e dove corre solo una lunghissima lingua di terra. Viene da non immaginarsi più nulla, su quella piccola spianata di pace. Le persone – quelle sì – me le immagino. Le relazioni, pure. Come se, certe volte, la città e la sua stratificazione urbana, l’addensamento delle cose, delle case, dei negozi, dei trasporti, allontanasse il volto umano di chi la abita, per renderlo così necessario su una semplice striscia di pietre e terra.
Orlando Manfredi
Playlist
Fabrizio De Andrè, “Coda di lupo” da “Rimini”
Van Morrison “Astral weeks”
Beatles “Anthology 1,2,3”
Wilco “Sky blue sky”
“Cielo di piombo, ispettore Callaghan” di James Fargo