“Risparmia 700 euro in 7 giorni”, una guida pratica al lavoro vernacolare
“Risparmia 700 euro in 7 giorni“, di Lucia Cuffaro, nasce dall’idea di avere a portata di mano una guida pratica, il più possibile completa e agevole per ottenere un considerevole risparmio economico, che sia anche in sintonia con l’ambiente. Con piccoli gesti ecocompatibili e pratiche quotidiane, che puntino decisi alla lotta contro gli sprechi, potremo avvicinarci all’obiettivo dei 700 euro in 7 giorni! Provare per credere! Questa agevole guida, edita da Arianna Editrice – Gruppo Macro, ambisce dunque alla creazione di un risparmio economico ecosostenibile per il lettore: il testo approfondisce il tema della riduzione delle bollette e degli sprechi energetici in casa, ponendo attenzione a modalità di ottimizzazione delle risorse e alla sharing economy. Dopo il successo del primo libro scritto dell’autrice, “Fatto in casa“, ritorna anche il tema dell’autoproduzione in una chiave però diversa, molto più incentrata sull’economicità, con tabelle illustrative e comparative, e sulla corretta lettura delle etichette, per diventare dei consumatori più liberi e informati. Vengono proposti sempre procedimenti veloci e fattibili, con una forte attenzione alle abitudini che possono semplificarci la vita. Per la nostra rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo l’introduzione di Maurizio Pallante.
Sì, lo so, è una mia deformazione professionale, ma la lettura di questo nuovo libro di Lucia prima di suscitare in me il desiderio di mettere in pratica i suggerimenti e le istruzioni che contiene – lo farò, come l’ho fatto consultando il precedente volume tutte le volte che ne ho avuto la necessità – mi ha fatto venire in mente alcuni passaggi di due conferenze in cui Ivan Illich, alla fine degli anni Settanta del Novecento, ha affrontato uno dei temi che più mi hanno fatto riflettere, perché se ne possono trarre indicazioni che ritengo fondamentali per applicare concretamente la scelta culturale della decrescita e trarne beneficio: il concetto di vernacolare.
Nel saggio “La madre lingua insegnata”, pubblicato nel libro intitolato “Nello specchio del passato”, Illich ha scritto: «Vernacolare viene da una radice indogermanica che contiene l’idea di radicamento e dimora. È una parola latina che, nell’epoca classica, indicava qualsiasi cosa allevata, coltivata, tessuta o fatta in casa, fosse essa un fanciullo, uno schiavo, un alimento, un vestito, un animale, un’opinione o uno scherzo. […] Io vorrei oggi resuscitare in parte l’antico significato del termine. Abbiamo bisogno di una parola che esprima in maniera immediata il frutto di attività non motivate da considerazioni di scambio; una parola che indichi quelle attività, non legate al mercato, con cui la gente soddisfa dei bisogni, ai quali nel processo stesso del soddisfarli dà forma concreta».
E nel saggio “Le tre dimensioni della scelta pubblica”, pubblicato nello stesso volume, ha precisato ulteriormente: «Io propongo [...] l’idea di lavoro vernacolare: attività non pagate, che garantiscono e incrementano la sussistenza, ma totalmente refrattarie ad ogni analisi basata sui concetti dell’economia formale. Chiamo vernacolari queste attività perché non c’è alcun altro termine attuale che mi permetta di tracciare le stesse distinzioni entro il campo coperto da concetti quali settore informale, valore d’uso, riproduzione sociale. Vernacolare è un termine latino, che ha assunto oggi una connotazione quasi esclusivamente linguistica. Nell’antica Roma, fra il 500 a.C. e il 600 d.C., esso indicava qualsiasi valore creato nell’ambito domestico e derivante dall’ambiente di uso comune, valore che una persona poteva proteggere e difendere, ma non poteva né vendere né acquistare sul mercato. Io suggerisco di recuperare questo semplice termine, per contrapporlo alle merci e alla loro ombra. Esso mi permette di distinguere l’espansione dell’economia ombra dal suo opposto, l’espansione della sfera vernacolare».
Nel libro di Lucia questa indicazione di Ivan Illich è tradotta in pratica. E non è un’operazione da poco, perché dall’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci ha fatto di tutto per cancellare dalla cultura condivisa le conoscenze necessarie a produrre valori d’uso, ad autoprodurre beni, per usare una delle definizioni che caratterizzano l’elaborazione teorica del nostro Movimento per la Decrescita Felice, cioè qualsiasi valore creato nell’ambito domestico e derivante dall’ambiente di uso comune. Quindi quel sapere va ricostruito, con la stessa pazienza e la stessa determinazione con cui si riabilita un arto che, dopo un incidente, sia rimasto inattivo per lungo tempo.
Ma per quale ragione si dovrebbe recuperare la capacità di autoprodurre? Non è più comodo andare a comprare quello che ci serve? Due sono le motivazioni che hanno guidato Lucia nella compilazione di questo libro, che si presenta come una guida pratica e agevole. La prima è la possibilità di ottenere un considerevole risparmio economico (fino a 700 euro in sette giorni) e contemporaneamente di ridurre l’impatto ambientale dei nostri comportamenti quotidiani. Tutto ciò che si autoproduce è più sano per se stessi e per gli ecosistemi. E in più fa risparmiare. Sarebbero tre ragioni sufficienti per farlo. Ma ce n’è una quarta, se possibile ancora più importante, perché costituisce il pre-requisito per impostare la nostra vita in maniera più soddisfacente, riscoprendo delle possibilità che il sistema dei valori e i modelli di comportamento da cui siamo stati condizionati hanno sradicato dal nostro immaginario collettivo. Una società che ha finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci, ha bisogno di convincere gli individui, sin dalla più tenera età, che il senso della vita sia non solo lavorare per produrre sempre di più e ricevere in cambio un reddito monetario per comprare sempre di più, ma anche comprare sempre di più per poter continuare a lavorare e produrre sempre di più. Perché se non si comprasse sempre di più non si potrebbe continuare a produrre sempre di più e la disoccupazione, già fuori misura, aumenterebbe ulteriormente.
Se, quindi, imparare ad autoprodurre quantità sempre maggiori di beni e servizi che abitualmente compriamo sotto forma di merci, per le singole persone rappresenta un vantaggio, per la collettività potrebbe costituire un problema ulteriore perché, facendo diminuire la domanda di merci potrebbe contribuire a ridurre la necessità di produrne. Sembra un ragionamento logico, ma non lo è per due ragioni. La prima: svilisce il lavoro da attività finalizzata a fare bene e migliorare il mondo, ad attività finalizzata a fare tanto, anche se questo fare peggiora il mondo. Anche le fabbriche d’armi creano occupazione. Nessuno può dubitare che sarebbe meglio creare occupazione, per esempio, ristrutturando energeticamente gli edifici affinché disperdano meno energia. Vogliamo finalmente introdurre criteri di valutazione qualitativa del fare umano? La seconda è che l’economia della crescita genera di per sé disoccupazione, perché la concorrenza impone alle aziende di introdurre continuamente innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere la produttività, cioè a ridurre l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto: a produrre di più con meno manodopera.
Questo processo è stato esasperato dalla globalizzazione, che consente alle industrie dei Paesi di più antica industrializzazione di delocalizzare i loro impianti nei Paesi dove la manodopera costa di meno: anche il 75% in meno. La chiamano disoccupazione tecnologica, ma è una falsità, perché l’introduzione di tecnologie sempre più perfezionate riduce la manodopera solo se si sceglie politicamente di non ridurre l’orario di lavoro giornaliero. A proposito,sia detto per inciso, le otto ore in Italia sono state introdotte negli anni Venti del secolo scorso. Da allora quante volte è aumentata la produttività? Perché non si sceglie di ridurre l’orario di lavoro? Solo perché non lo vogliono gli industriali? O non lo vogliono nemmeno i lavoratori dipendenti? E perché non lo vogliono? In primo luogo perché non sanno autoprodurre più niente e devono compare tutto, per cui se la riduzione dell’orario di lavoro comporta una riduzione del salario, non l’accettano. Ma non è tutto. In secondo luogo perché dagli anni Sessanta del secolo scorso, abbiamo tutti interiorizzato l’idea che il valore di una persona si misura col suo reddito e con le cose che può comprare.
Come si possono smontare queste idee che hanno colonizzato il nostro immaginario collettivo se non riducendo la nostra dipendenza dal denaro? E ciò può avvenire solo se ci liberiamo dalla necessità di comprare tutto ciò di cui abbiamo bisogno, perché reimpariamo ad autoprodurre molte cose di cui abbiamo bisogno. Certo, non tutto. Gli oggetti e i servizi a tecnologia evoluta – il computer, la risonanza magnetica ecc. – si possono solo comprare. Ma tra comprare tutto e non comprare niente ci sono opzioni intermedie. La possibilità e l’utilità di cambiare i nostri modelli di comportamento sono messaggi di fondo che il libro di Lucia ci trasmette. Se reimparando a fare dobbiamo comprare di meno e risparmiamo denaro, non ha senso spendere i soldi risparmiati per comprare cose e servizi che oggi non ci possiamo permettere. Non usciremmo dalla ruota del criceto che ci fa correre in continuazione per restare sempre allo stesso punto.
Se autoproducendo si risparmia e si ha bisogno di meno denaro, si può lavorare di meno e dedicare più tempo ai propri bisogni spirituali: alle relazioni umane che ci stanno più a cuore, alla nostra creatività, alla contemplazione della bellezza del mondo. Non sono sentimenti da anime belle. Chi lo pensa e pensa che le uniche cose che hanno senso sono quelle che rispondono ai bisogni materiali, o all’ostentazione dei segni del nostro successo professionale, mortifica le sue esigenze più profonde e vive in uno stato permanente di stress. Non è un caso che nelle società in cui il prodotto interno lordo pro-capite è più alto, sia più alta la percentuale di coloro che hanno bisogno quotidianamente di psicofarmaci nonché quella dei suicidi.
Il libro di Lucia non insegna soltanto a fare cose che, a differenza delle generazioni passate, non sappiamo più fare, non ci insegna soltanto a ridurre i comportamenti dissipativi e gli sprechi osservando alcune regole di comportamento più responsabili, ci dice che applicando i suoi suggerimenti e le sue indicazioni possiamo ridurre la nostra dipendenza dal denaro e vivere meglio. Il suo libro è un vademecum per la decrescita felice, che non significa rinunciare e fare sacrifici, ma capire che non sempre il più coincide con il meglio. Alcuni miglioramenti si possono ottenere soltanto con il meno, ovvero riducendo gli sprechi e le inefficienze. Il suo libro non è un ricettario, né un prontuario del fai da te o del bricolage. Non lo dà a vedere, ma veicola una concezione del mondo. È, lo dico sottovoce, un trattatello che sottende una filosofia…
Maurizio Pallante