Prendo la bici e vado in Australia
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del nuovo libro “Prendo la bici e vado in Australia” di Francesco Gusmeri (Ediciclo, pp. 240, 16,50 euro) , geometra, ex magazziniere e operatore socio sanitario.
Con quel mix fantastico di slancio verso nuove avventure e inquietudine per l’ignoto, il primo ottobre lascio Kashgar e imbocco la temuta e interminabile statale G315, nota come South Taklimakan Desert Road. Sulla mia mappa stradale appare come una solitaria linea rossa in mezzo al nulla. Mentre lascio la città mi ripeto i calcoli che sto facendo da settimane, secondo i quali dovrei riuscire a raggiungere Xining in circa quaranta giorni. Sarà la mia Quaresima cinese. L’ampia carreggiata asfaltata lascia ben presto il posto a un’angusta corsia, con fondo ruvido e gobboso, che mette a dura prova braccia e chiappe. La prima pietra miliare della statale indica che da qui a Xining ci sono 3009 chilometri.
Dopo appena mezz’ora di tragitto, i palazzoni piastrellati di Kashgar sono un ricordo già sfumato nel tempo: mi ritrovo immerso in un mondo contadino, punteggiato da fiorenti villaggi con casupole di legno e argilla e suggestivi viottoli affiancati da alti filari di pioppi. Lungo la strada la maggioranza dei mezzi di trasporto è costituita da carretti trainati da asinelli che conducono i contadini e le loro mercanzie dai campi al mercato. Il traffico automobilistico è scarso ma risulta comunque pericoloso a causa della velocità dei veicoli, benché la segnaletica stradale sia buona e vi siano parecchi cartelli indicanti il limite di velocità. Pedalo tutto il giorno con il vento contrario in un continuo alternarsi di zone abitate e tratti di deserto sassoso. Dove l’uomo è riuscito a rendere fertile il terreno, grazie alle canalizzazioni, ci sono villaggi, vegetazione, vita. Per il resto, il vento e la sabbia invadono tutto. Più deserto di così, non si può.
Come se questo non bastasse, devo lottare contro un forte vento contrario. Sebbene la strada sia completamente pianeggiante, non riesco a spingere oltre i dieci chilometri orari e la sabbia, sospinta da turbinosi mulinelli, mi arriva violentemente in bocca e negli occhi. Procedo così per circa quattro ore. È un’agonia. La mia fame di chilometri viene messa a dura prova. Le energie mentali, in questi frangenti, diventano più importanti di quelle fisiche, e sono i pensieri, più che gli zuccheri, a rifornire i muscoli di energia. Pensieri liberi e inquieti, come il vento che mi sta sferzando. Scaturiscono dal doppiofondo del cervello, un solaio virtuale di cui non si apre quasi mai la porta. In una situazione del genere, il mio mostriciattolo si scatena, come uno squalo che sente l’odore del sangue. Diventa furioso, cattivo. E ogni volta che una raffica di vento mi frusta rabbiosamente il viso, lui scava ancora più nel profondo, solleva coperchi e ricordi, apre vasi e paure, rispolvera offese, angherie e frustrazioni. Le vecchie ferite sono un ottimo combustibile per andare avanti. E io sono consapevole di avere delle discrete scorte di questa benzina. Ma non sono sicuro che mi basteranno per venire a capo di questo deserto infinito.
Fino all’oasi di Guma non trovo più un filo d’erba. Mentre pianto la tenda a ridosso di alcune abitazioni in questa oasi in pieno deserto mi accorgo che le scarpe stanno pestando un praticello spelacchiato. Che bella sensazione! Sono già nel sacco a pelo quando, a distanza molto ravvicinata, sento le voci di alcuni ragazzini che devono essersi accorti di un’insolita presenza. Spengo immediatamente la torcia e torna a regnare il silenzio, poi mi addormento sotto un cielo meravigliosamente stellato. Ma alle due il cielo si è coperto e, dal deserto, mi accorgo che sta per arrivare una specie di nuvolone. Non capisco che cos’è, ma mi rintano in tenda cercando di sigillarmi dentro il meglio possibile. Dopo mezz’ora una bufera di vento e sabbia imperversa con inaudita violenza. All’inizio temo di essere spazzato via dalla furia del vento ma, dopo un paio d’ore d’angoscia, riesco perfino ad addormentarmi nel baccano del mio involucro. Al mattino ritrovo bagagli, bicicletta e tenda avvolti da una coltre di sabbia sottilissima. Prima di ripartire, oltre a ripulire tutto, devo rimettere un po’ d’olio alla catena impolverata e rinsecchita. Alle prime luci del giorno l’anziano contadino del vicino casolare si è accorto della mia presenza e, con aria prima sospettosa, poi piena di curiosità, presiede immobile a tutte le operazioni di smontaggio della tenda e preparazione dei bagagli. La sua compagnia muta mi fa piacere e, quando arriva il momento di partire, vorrei avere ancora qualcosa da preparare per stare con lui qualche minuto in più.
Franceco Gusmeri*
*Francesco Gusmeri è nato a Brescia nel 1971. Geometra, è stato magazziniere e operatore socio sanitario. Dopo aver lavorato e risparmiato per cinque anni, dopo aver sperimentato l’ebbrezza di un altro viaggio lungo e solitario sulle due ruote dall’Italia a Capo Nord, Francesco ha mollato tutto per realizzare un sogno: andare in bici fino in Australia. Prendo la bici e vado in Australia (Ediciclo, pp. 240, 16,50 euro), in uscita il 1 giugno, è il racconto di questo viaggio avventuroso «da Brescia a Melbourne alla ricerca della felicità». Che alla fine, scopre l’autore, non è uno stato di grazia da conquistare, ma piuttosto la voglia di tornare a casa per poi mettersi di nuovo in viaggio. In questo estratto, Francesco affronta il deserto cinese del Taklimakan, fatto di sassi, sabbia e vento.