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Per la nuova rubrica “Racconti d’Ambiente” publichiamo oggi un estratto del primo capitolo di “Green Metropolis” di David Owen, nella traduzione di Roberto Merlini (Egea, 2010, pp. 250, € 24,00).
Mia moglie e io ci siamo sposati appena usciti dal college, nel 1978. Eravamo giovani, ingenui e spudoratamente idealisti, e abbiamo deciso di prendere casa in una comunità utopicamente ambientalista dello stato di New York.
Per sette anni abbiamo vissuto serenamente in condizioni che alla maggior parte degli americani apparirebbero estremamente austere: avevamo a disposizione appena 35 metri quadri, e non avevamo un giardinetto, un’asciugabiancheria e neppure una macchina. Andavamo a fare la spesa a piedi, e quando dovevamo andare più lontano usavamo i mezzi pubblici. Siccome a casa lo spazio scarseggiava, non potevamo acquistare oggetti di dimensioni significative. La bolletta elettrica viaggiava intorno a un dollaro al giorno.
Quella comunità utopistica era Manhattan. La maggior parte degli americani, inclusi i newyorkesi, considera New York un incubo ecologico, un deserto di cemento, immondizie, scarichi di motori diesel e ingorghi, ma rispetto al resto dell’America è un autentico modello di responsabilità ambientale. Anzi, in base agli indicatori più significativi, New York è la comunità più ecologica degli Stati Uniti. Il danno più devastante che gli esseri umani abbiano arrecato all’ambiente deriva dalla combustione dei carburanti fossili, una categoria in cui i newyorkesi sono praticamente preistorici rispetto agli altri americani, inclusi quelli che vivono in zone rurali o in città comunemente ritenute «ecologiche» come Portland, Oregon, e Boulder, Colorado.
L’abitante medio di Manhattan consuma benzina a un ritmo che il paese nel suo complesso non conosce da metà degli anni Venti, quando la macchina più diffusa negli Stati Uniti era la Ford «T»1. Grazie a New York City, l’abitante medio dello stato di New York consuma meno benzina del suo omologo di qualunque altro stato, e meno della metà dell’abitante medio del Wyoming. L’82 per cento degli abitanti di Manhattan che hanno un lavoro dipendente va in ufficio con i mezzi pubblici, in bicicletta o a piedi. È dieci volte la percentuale media degli americani in generale, e otto volte quella dei lavoratori dipendenti della contea di Los Angeles.
New York City è più popolosa di tutti gli stati del paese tranne undici; se le venisse attribuita la configurazione giuridica di stato, si piazzerebbe al cinquantunesimo posto per consumo energetico pro capite, non solo perché i newyorkesi girano di meno in automobile, ma anche perché le abitazioni sono più piccole delle altre case americane e generalmente meno invase da grandi elettrodomestici. Il newyorkese medio (se si prendono in considerazione le cinque circoscrizioni amministrative della città) genera annualmente 7,1 tonnellate metriche di gas serra, cioè meno degli abitanti di qualunque altra grande città americana, e meno del 30 per cento della media nazionale, pari a 24,5 tonnellate metriche4; gli abitanti di Manhattan ne generano ancora meno. «Qualunque città che abbia così tanti grattacieli e un traffico così pesante rappresenta ovviamente un disastro ambientale – ma qui è diverso», mi ha detto nel 2004 John Holtzelaw, ex presidente neopensionato del comitato trasporti del Sierra Club. «Se i newyorkesi vivessero nel tipico quartiere residenziale suburbano da tre famiglie per ettaro, avrebbero bisogno di un’area molto più grande. Andrebbero in giro in macchina, avrebbero grandi giardini che curerebbero con l’uso di pesticidi e fertilizzanti e li annaffierebbero indiscriminatamente, producendo un enorme deflusso di acque di scarico».
Per Charles Komanoff, economista, ambientalista e fedele utilizzatore della bicicletta, la chiave della relativa efficienza ambientale di New York è la sua estrema compattezza. «I newyorkesi rinunciano alla presunta comodità dell’automobile per la vera comodità della prossimità. Sono in grado di vivere senza il disastro ecologico rappresentato dalle automobili – causato non solo dalla necessità di usare la macchina per andare praticamente dovunque, ma anche dalla distanza da percorrere. L’uso della bicicletta, l’utilizzo dei mezzi pubblici e gli spostamenti a piedi si supportano a vicenda, perché sono tutti facilitati dalla densità abitativa».
La densità di Manhattan è attorno alle 67.000 persone per miglio quadrato, ossia più di ottocento volte quella del paese nel suo complesso e circa trenta volte quella di Los Angeles. La concentrazione di un milione e mezzo di persone su un’isola di ventitré miglia quadrate ne riduce sensibilmente le opportunità di spreco, consente alla maggior parte di loro di fare a meno dell’automobile, e le obbliga quasi tutte a vivere in alcune delle strutture residenziali a più elevata efficienza energetica del mondo: i condomini. Inoltre lascia liberi vasti appezzamenti per lo sviluppo di nuovi quartieri residenziali.
Mia moglie, Ann Hodgman, e io abbiamo avuto una figlia, Laura, nel 1984. Ann e io eravamo cresciuti in un distretto suburbano, e abbiamo deciso che non avremmo fatto crescere Laura in una metropoli. Aveva imparato a camminare da un paio di mesi quando ci siamo trasferiti in una cittadina del Connecticut nord-occidentale, circa novanta miglia a nord di Manhattan. La nostra casa era stata costruita alla fine del Settecento.
Una sera, poco dopo il nostro trasferimento, sono entrato in soffitta e ho ispezionato alla luce della torcia la parte interna del tetto. Le tavole di rivestimento erano state ricavate, duecento anni prima, dai grossi tronchi di antichi castagni americani, una specie che era stata portata all’estinzione da un’infezione delle piante nella prima metà del XX secolo, e alcune di esse erano grandi quasi come tavole di compensato. Le travi, che erano state tagliate a mano, non erano tenute insieme dai chiodi, ma da raccordi di legno. Verso la fine di alcune travi erano intagliati dei grandi numeri romani, utilizzati come riferimento dall’anonimo costruttore del XVIII secolo. La casa sta di fronte a un sentiero di terra battuta che esce da una riserva naturale, ed è ombreggiata da alti pini; e dopo la fine del temporale potevo sentire le acque di un torrente ingrossato che scorrevano tumultuosamente alla base della collina. Cervi, tacchini selvatici, e di tanto in tanto anche qualche orso bruno venivano a mangiare sul retro di casa nostra, e i fiori selvatici crescevano dappertutto. Dal vialetto che porta al nostro garage, posso camminare per diverse miglia attraverso i boschi fino a un tunnel ferroviario abbandonato del XIX secolo, attraversando una sola strada asfaltata.
Ma il nostro trasferimento è stato una catastrofe dal punto di vista ecologico. Il consumo di elettricità è passato dai circa quattromila chilowattora all’anno che pagavamo a New York a quasi trentamila chilowattora – e la nostra casa non aveva neppure l’aria condizionata centralizzata.
Abbiamo acquistato un’automobile poco prima di trasferirci, ne abbiamo comprata un’altra poco dopo il trasferimento e una terza dieci anni dopo (se vivi in campagna e non hai una seconda macchina, non puoi neppure andare a ritirare la prima dal meccanico dopo la riparazione). La terza macchina era il prodotto della crisi di mezza età; è diventata una necessità nel momento in cui Laura e suo fratello John sono diventati abbastanza grandi da poter guidare.
Sia Ann sia io lavoriamo a casa, e il nostro pendolarismo si riduce a una rampa di scale, ma tra tutti e due riusciamo a percorrere più di ventimila miglia all’anno, in prevalenza per le commissioni. I cittadini che fantasticano di andare a vivere in campagna immaginano di solito di fare escursioni, di andare in canoa, di raccogliere le uova dalle loro galline e di impegnarsi in altre tonificanti attività all’aperto; ma ciò che si fa di solito quando ci si trasferisce in campagna è andare in giro in macchina, perché i trasporti pubblici non esistono e la maggior parte delle destinazioni quotidiane sono troppo distanti l’una dall’altra per muoversi a piedi o in bicicletta. Quasi tutto ciò che facciamo Ann e io quando siamo fuori casa richiede l’utilizzo della macchina. Il cinema più vicino è a venti minuti di strada, come il più grande supermercato della zona. Per affittare un DVD e poi restituirlo si consumano quasi due galloni di benzina, perché il Blockbuster è a dieci miglia di distanza e ogni transazione richiede due viaggi di andata e ritorno.
Usiamo spessissimo la macchina anche quando portiamo fuori il cane, perché la passeggiata possa iniziare in qualche altro posto che non sia il giardino di casa nostra. L’ambulatorio del pediatra che consultavamo a Manhattan stava al pianterreno del nostro condominio, e ci andavamo in ascensore. L’ambulatorio del mio dentista del Connecticut sta a due cittadine di distanza, e tra andare e tornare devo percorrere trentadue miglia. Quando vivevamo a New York, il calore che defluiva dal nostro appartamento contribuiva a riscaldare l’appartamento di sopra; oggi, molte delle unità caloriche prodotte dalla nostra modernissima e superefficiente caldaia a gasolio scappano via attraverso quel tetto bicentenario e svaniscono nel cielo stellato.
David Owen*
*Giornalista del New Yorker e collaboratore di The Atlantic Monthly e Harper’s Magazine.