“L’incanto del Rifugio”. Piccolo elogio dell’ospitalità in montagna
Enrico Camanni, alpinista e giornalista torinese, ha fondato il mensile “Alp” e la rivista internazionale “L’Alpe”. Oggi collabora con “La Stampa”. Ha scritto “Di roccia e di ghiaccio. La storia dell’alpinismo in 12 gradi” (Laterza, 2013) e aggiornato “La storia dell’alpinismo” di Gian Piero Motti (Priuli& Verlucca, 2013). Il suo libro “Il fuoco e il gelo” (Laterza, 2014) è dedicato al tema della Grande Guerra in montagna. Ha scritto inoltre sei romanzi ambientati in diversi periodi storici e ha curato i progetti del Museo delle Alpi al Forte di Bard, del Museo interattivo al Forte di Vinadio e del Museo della Montagna di Torino. È vicepresidente dell’associazione “Dislivelli”. Per la nostra rubrica Racconti d’Ambiente pubblichiamo un estratto del suo ultimo libro “L’incanto del rifugio” edito da Ediciclo.
Cielo pigro e nuvoloso, tarda estate, non ancora autunno. Due ragazzi che mettono insieme gli anni di Cristo sulla croce salgono con gli zaini al bivacco fisso Duccio Manenti, una mezza botte metallica appollaiata sulle montagne dell’alta Valtournenche. Progettato per ospitare villeggianti di scarse pretese, il lillipuziano rifugio di lamiera argentata serve a dormire o aspettare l’alba vegliando. Come sardine speranzose. Il gran lago di Cignana occhieggia tra le brume nel passaggio tra il pomeriggio e la sera, la buona e la cattiva stagione, il bello e il brutto tempo. Le mosche volano basse e le vacche stanno accucciate e quiete,quasi invisibili. Le previsioni meteo promettono avventura, non la certezza della cima. Si va comunque, al comando della passione.
La giornata di settembre scivola nell’imbrunire e nel silenzio dei tremila metri, ma i ragazzi di belle speranze conoscono i sassi del sentiero e sono bravi a camminare anche nel buio. Potrebbero farlo anche in sogno. Sanno esattamente dove posare lo scarpone e hanno pupille allenate all’oscurità, come gli animali della notte.Un passaggio diagonale unisce i pascoli grassi dell’alpe di Cignana a terrazzi di erbe più magre e fiori più disidratati, dove il sentiero attraversale acque celesti del Dragone e affronta labalza del bivacco Manenti. In quel preciso momento si passa dalla media all’alta montagna. Se il sole o la luna illuminassero quella porzione di cielo, alzando gli occhi alle cime si scorgerebbe il riflesso della lamiera dove il pendio si china sull’altopiano e l’erba fa posto alle morene dell’antico ghiacciaio. Al piede della balza rocciosa sfioriamo un anfratto che fiata aria umida e stantia.
Nel buio, a memoria, ripasso la scritta rupestre: «Il Gargantua qui sostò e con le unghie questa caverna scavò». Le leggende fanno parte della mia educazione alpestre, quindi concedo qualche passo al racconto. Gargantua, o Gargantuà alla francese, era un gigante di queste parti. Buono come quello della pubblicità. Era cresciuto così tanto da tenere un piede in una valle e uno nell’altra. Per soddisfare la voglia di sapere, un giorno scavalcò la barriera misteriosa che divideva Valtournenche da Zermatt, l’esotico paese di Praborno. Frantumando la cresta di confine, Gargantua si ritrovò il triangolo del Cervino in mezzo alle gambe ciclopiche. Come Michelangelo, scolpì la Gran Becca per sottrazione di pietra. Gargantua rappresentava gli spiriti montanari della tradizione: primitivi ma liberi. Probabilmente si incarnò in molti valligiani di dimensioni umane, assetati di mondo come lui. Sul lato svizzero del Cervino si immedesimò certamente in Alexander Burgener, la guida vallesana dura come la pietra e rotta a ogni esperienza, uomo piccolo di statura ma gigantesco sui ghiacci e le rocce delle montagne, che nella seconda metà dell’Ottocento accompagnava i signori della borghesia europea alla conquista delle Alpi. Nel 1880 il rude Alexander affrontò una notte all’addiaccio sulle sponde dello Schwarzsee, il lago delle lacrime nere, dove Gargantua aveva posato il piede gigante scavalcando la Gran Becca. Burgener si accampò sotto il triangolo perfetto del Cervino in compagnia di altre guide e dell’alpinista inglese Albert Frederick Mummery, che scrisse di lui e di quell’avventura: «Fu con gran gioia che salutai il nostro arrivo sul vasto piano di pascoli paludosi che si stende sotto il Lago Nero, ma dopo qualche minuto eravamo circondati dall’ondeggiare stregato, soprannaturale, di innumerevoli fuochi fatui. A ogni passo vagavano a destra e a sinistra; li avevamo appena sorpassati che ricomparivano furtivamente dietro di noi, seguendole nostre tracce, inquietanti, pieni di minacce cui non pareva possibile sottrarsi, né fuggendo né volando. Le guide erano terrorizzate. Burgener, aggrappato al mio braccio, mormorava con voce roca: “Eccole, monsieur, le anime dei trapassati!”».
Allungando il passo superiamo la grotta di Gargantua e affrontiamo gli zig zag del sentiero l’incanto del rifugio 15 marcato di rosso. Le curve a destra ci avvicinano ai misteri dell’alta montagna, le svolte a sinistra accarezzano il vuoto che abbiamo colmato con il nostro cammino. La meta è vicina e il bivacco ci viene addosso dopo l’ultimo tornante, sagoma traslucida tra i blocchi di gneiss. Eccoci a casa, adesso la notte non fa più paura. Posiamo a terra gli zaini, la corda, la piccozza, i martelli e i chiodi da roccia, infiliamo cappello e maglione di lana, diamo gas al fornellino e ci scaldiamo una minestra liofilizzata. Un moccolo di candela sostituisce le torce elettriche. Come sempre discutiamo della scalata dell’indomani, ma le voci rimbalzano ovattate e stagnanti. Il nostro film ha un pessimo tecnico del suono. Allora ci accorgiamo di essere sprofondati nella nebbia, e che tutt’intorno non si distingue più niente, e che non è solo notte ma un grigio più definitivo. Nel catino di sassi tra la Becca di Cian, le Cime di Balanselmo, la Fontanella, il Dragone e il Castello delle Signore si è allargata una nuvola caparbia che ci sta mangiandole parole, le stelle e l’ottimismo. Che cosa ci aspetta? Domani si vedrà. Sono le solite domande che precedono l’ascensione. I rifugi e i bivacchi ne sono pieni, rimbombano di quelle divinazioni. Preghiere per chi ha fede e scongiuri per chi non ne ha. Nei rifugi degli alpinisti ci si addormenta ogni sera con l’ombra del dubbio, confidando che l’alba provvederà a sciogliere il sonno e l’incertezza. La notte è un passaggio obbligato che separa le timidezze della vigilia dalla smania del nuovo giorno.
Enrico Camanni