La Thailandia in tre oggetti: tuk tuk, bamboo e pannelli solari
Il jet lag ancora si fa sentire e tocca impegnare la mente nei ricordi di sapori e profumi ormai distanti migliaia di chilometri. Un brusco risveglio. Trovarsi in 24 ore catapultati dal “paese del sorriso” alla scrivania dell’ufficio, è certamente scioccante e dovrò fare attenzione a non lanciarmi in un’appassionata apologia del viaggio, dei paesi orientali (della Thailandia in particolare) e a non perdere di vista il compito a cui sono chiamata: una valutazione di ciò che ho osservato in questo paese sul piano delle buone pratiche, dell’attenzione all’ecologia e all’impatto ambientale.
Rispetto ai paesi asiatici che la circondano, la Thailandia è una meta che incontra il gusto dei viaggiatori più diffidenti e restii a uscire dai confini dell’Europa e dagli schemi della vita occidentale. Saranno le centinaie di fotografie che campeggiano sui cataloghi di viaggio con spiagge paradisiache ornate di palmizi e grasse aragoste che a fatica entrano nei piatti da portata, saranno i volti sorridenti e rassicuranti delle popolazioni che vivono nel nord circondati da una vegetazione rigogliosa e da spettacolari cascate, saranno altri motivi meno nobili sui quali non ci soffermeremo, fatto sta che 15 milioni di turisti ogni anno invadono il paese dalla forma di “testa di elefante”. E la Thailandia è, innegabilmente, pronta ad accoglierli.
Strade, linee ferroviarie e infrastrutture sono in buono stato e collegano bene le regioni tra loro. Treni e bus di linea sono il mezzo più economico, comodo e semplice da utilizzare per spostarsi e raggiungere le principali località di interesse naturalistico e storico. All’interno delle città, oltre alle care, vecchie ed ecologiche gambe proprie, si trovano decine di “bicycle to rent” per poche ore o per l’intera giornata, all’irrisorio costo di 30 bath (0,75 centesimi).
Bangkok sopra tutte si è allineata con le grandi capitali del mondo e offre un servizio di free bike sharing, Bangkok Smile Bike, la cui rete va incrementandosi rapidamente. Se proprio si è stanchi o si ha poco tempo a disposizione l’alternativa è costituita dai pittoreschi Tuk Tuk, taxi a tre ruote dal caratteristico rumore assordante dovuto al motore a due tempi di estrazione motociclistica, che consente di percorrere 35 km con un litro di benzina. Data l’enorme diffusione di questi mezzi e l’inquinamento acustico e ambientale che producono, un team di ingegneri ha studiato, progettato e costruito un prototipo ecologico di questo mezzo di trasporto: un Tuk Tuk spinto da un pannello solare posizionato sul tetto, capace di raggiungere gli 80 km/h.
Non solare ma elettrico è invece il modello realizzato e commercializzato dall’azienda olandese Tuk Tuk Factory che importa tricicli dall’Asia e li modifica: il motore termico viene rimpiazzato da un modulo elettrico alimentato da un corposo pacco di batterie al piombo dal peso di 400 kg. Secondo la Casa, il Tuk Tuk a zero emissioni ha un raggio d’azione di circa 80 km e una velocità massima limitata a 50 km/h.
Bene. Una volta scelto il mezzo e giunti a destinazione, che fare? Io e le mie compagne di viaggio, nonostante il solleone, non ci siamo fatte sedurre dal canto delle sirene del mare e delle isole del sud e ci siamo dirette a nord, alla scoperta delle coltivazioni di riso e delle piantagioni di tea delle tribù lahu, akha e karen.
A Chang Rai, porta d’accesso del Triangolo d’Oro, non vi è che l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda le agenzie che svolgono camminate nelle zone circostanti: vi sono formule che variano dalla gita giornaliera fino alla settimana. Una guida che parla uno stentato inglese vi accompagnerà e cucinerà per voi.
L’ospitalità notturna è offerta dalle “hill tribes” che si incontrano sul percorso del trekking: queste popolazioni hanno lontane origini sino-tibetane anche se la maggior parte emigrò in Thailandia nel XX secolo, fuggendo i conflitti in Cina, Myanmar e Laos. Di diverse etnie, ognuna con una lingua, delle tradizioni e un’organizzazione sociale propria, le popolazioni delle colline si annidano fra le pendenze montagnose e la giungla della parte nord della Thailandia, vicino al confine con il Myanmar. Conservano un forte attaccamento alle proprie tradizioni e vivono isolati, in splendide case-palafitta interamente costruite in bamboo.
Dopo un’umida arrampicata alle cascate e bagno rinfrescante, veniamo accompagnate a casa della famiglia che ci ospiterà e che ci insegnerà i segreti della cucina locale. Impariamo a cucinare con il bamboo e osserviamo come la creazione di stoviglie e oggetti di ogni genere prenda forma da questo legno così robusto e allo stesso tempo versatile.
Manca l’elettricità ma i pannelli solari, grazie al calore e alla luce del sole, saranno la fonte di energia per l’acqua calda, l’illuminazione della terrazza sulla quale consumeremo la cena e…la tv, di fronte alla quale si raccolgono, appena rientrati da scuola, i figli dei nostri ospiti insieme agli amici. Un premio meritato tenendo conto che i ragazzi percorrono giornalmente circa 30 km a piedi per andare e tornare da scuola – e non per questo sono meno felici dei loro pigri coetanei occidentali.
Il cibo è delizioso, freschissimo e home made, ma questo in Thailandia non è una novità. Qui Carlo Petrini non saprebbe a chi dare prima il bollino Slow Food! Dopo quattro chiacchiere in anglo-italo-akha con la nostra famiglia adottiva, alle dieci crolliamo dal sonno sui nostri tappetini al piano superiore della palafitta. Ci sveglieranno un sole accecante, i versi acuti delle centinaia di galli del circondario e il profumo del té delle montagne.
Ho fatto domanda di adozione ma la mamma akha era troppo impegnata a spolverare casa per prendermi seriamente in considerazione.
Elena Marcon