Il mare che bagna i pensieri. I paesaggi della memoria di Ilma Rakusa
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “Il mare che bagna i pensieri” di Ilma Rakusa, edito da Sellerio Editore (pag. 376 , euro 18.00).
Lubiana, lei volle dire anche nebbia e odore di carbon fossile, odore di carbon fossile e nebbia. In mezzo alla nebbia prosperavano i funghi, i raffreddori. Al Café Europa l’atmosfera non era meno uggiosa.
Then we were heading towards the sea.
Sul Carso, di colpo, il clima muta. Le nebbie si ritirano, i pini si stagliano neri e ben delineati sul fondo calcareo. Lecci, ginepri, ginestroni. Terra rossa. Pietrisco. Le torri campanarie dei villaggi sparsi in lontananza non appuntite, ma a campanile. L’elemento mediterraneo si fa notare.
Si fa notare ancor più quando l’altopiano carsico termina, per digradare ripido verso il golfo di Trieste. Qui il mare si adagia in un gigantesco semicerchio: azzurrino, scintillante, tutto una promessa.
Deve avermi mozzato il fiato, questo primo mare. Ancora oggi, nel mio settentrione, chiudendo gli occhi vedo la sua luminosa vastità. Sento l’odore dell’aria salmastra, le onde che battono il litorale. E mi sembra che vada tutto bene.
Quasi senza che io lo voglia, le labbra formano una «O».
Acqua, vento, calore, pietra, bianco, azzurro, conchiglia, alga, pervinca, alloro, rosmarino, vite, oleandro. E altalena e Faro e Miramare e pesci e navi. Oppure così:
La cerchia dell’infanzia
con faro e golfo
con castello e bosso
con veranda e fiaba
della volpe con spiaggia e
sabbia istriana con papà
mamma e frangenti
con cono gelato e vento
dal Carso ma senz’ombra di paura.
Lo stenogramma di una felicità, che in realtà aveva molti aspetti. Come il mare, come il cielo, come la città, che era divisa in due. La zona A era amministrata dagli alleati, la zona B dagli jugoslavi. Noi vivevamo nella zona A, a Barcola, verso Miramare. Una casa color sangue di bue, lungo la ripida via San Bortolo, al disopra del viadotto dell’ex ferrovia sud, con giardino, pergolato e gallo che cantava. Piano superiore, vista sul mare. Il bagno l’avevamo in comune con la famiglia di un ufficiale delle truppe d’occupazione americane, che era acquartierata nell’appartamento accanto. Due nuove lingue battevano contro il mio orecchio: l’inglese e l’italiano. L’inglese apparteneva ad una sfera che mi restava estranea, l’italiano lo imparavo da Violetta, la figliola gobba dei vicini di casa, dai bambini sulla spiaggia, dalle donne del mercato. Imparavo a tutto spiano. A nuotare col salvagente di sughero, a discorrere con Violetta, ad andare in tram, a far fronte al vento. Imparavo fino all’esaurimento, poi dormivo fra papà e mamma il sonno infantile dei giusti.
I treni, che – ad altezza d’occhio – transitavano lungo il viadotto, non mi facevano paura. Né di giorno, né di notte. Come fossero dei giocattoli, sfilavano davanti all’orizzonte marino e sparivano.
Il giardino era privo d’incanto. Angusto e inselvatichito, somigliava ad un verde ripostiglio – con bosso e alberi di fico, con un po’ di ortaggi e un gallo scontento, che razzolava solitario in mezzo all’erba sparuta.
Non avevo voglia di andare in giardino, tutt’al più nella veranda invasa dal glicine. Avevo voglia di andare al mare, continuamente al mare. Delle foto mi ritraggono in un cappotto ungherese di pelle d’agnello, lungo fino alla caviglia, con un berretto di lana sul molo di Barcola. Avrà fatto freddo e ci sarà stato vento, corrugo la fronte. Ma non c’era tempo atmosferico che potesse tenermi lontana dal mare, al massimo la bora, quand’era fortissima. La mia infanzia triestina si svolse sugli scogli sbiancati che bordano il litorale di Barcola – e, lungo un semicerchio, il promontorio col castello di Miramare. Grandi massi irregolari, fra i quali l’acqua gorgogliava, mugghiava o frusciava acquietante. Mentre lo sguardo perlustrava l’orizzonte alla ricerca di navi o si perdeva nell’azzurro del mare.
D’estate ci si doveva andare ogni giorno: la borsa da spiaggia già pronta e alle dieci giù sugli scogli. Mia madre ed io ci sceglievamo quelli più piatti, stendevamo il telo-Biancaneve-e-i-sette-nani e ci mettevamo comode, sdraiate o sedute. Lei mi spalmava di crema le spalle e io lo facevo con le sue, poi tirava fuori un libro e mi leggeva qualcosa a voce alta. Adesso i diavoli delle favole comparivano di fra le ondate, di conseguenza la voce di mia madre si accomunava con tanta naturalezza a quella del mare da farmi sistematicamente assopire. Prima o poi venivo risvegliata dal sole e dall’animazione tutt’intorno a noi. Gli scogli s’erano già riempiti di vivacità, dei pensionati avevano montato piccoli tavolini da campeggio sulla passeggiata a mare, giocavano a scacchi o consumavano le cibarie portate da casa. In acqua si scatenavano i bambini, occasionalmente anche un cane. Stordita dal gran caldo, dal fulgore abbacinante, mi veniva immediatamente voglia di fare il bagno. Mia madre mi allacciava il salvagente di sughero, mi spruzzava la nuca e mi spingeva dolcemente in acqua. Poi mi veniva dietro.
Parlo delle giornate di bonaccia, quando il mare era quasi come uno specchio, senza moto ondoso. Oppure soltanto un po’ increspato. Con un dondolio che pizzicava appena, e isolate correnti più fresche. Minuscoli pesciolini guizzavano luccicanti. Mi mettevo a strillare per la contentezza.
Non ne avevo mai abbastanza.
Venir fuori dall’acqua era la cosa più bella in quei punti in cui fra gli scogli c’era della sabbia. Ad un tratto con i piedi si toccava, e le mani andavano in cerca di conchiglie. Le estraevano dalla sabbia umida, le sciacquavano, fino a renderle cangianti. Le conchiglie spezzate non contavano, valeva ogni singolo dentello, e la decorazione, e la lucentezza, e l’armoniosità della forma.
Non ne avevo mai abbastanza.
La giornata spartita nel mezzo. Quando il sole era allo zenit, si tornava nella casa color sangue di bue, nel fresco delle sue stanze ammattonate. Mangiavamo un boccone, poi era il momento della siesta. Ore dai suoni smorzati, uno slow-down e un calm-down, un pssst, che faceva rintanare con un balzo silenzioso persino le lucertole. Soltanto i leprotti di luce continuavano a trepidare, a trepidare sull’impiantito. […]
Ilma Rakusa*
Il testo è stato pubblicato per gentile concessione di Sellerio editore
*Ilma Rakusa scrittrice poetessa critico e traduttrice, nata in Slovacchia nel 1946, da padre sloveno e madre ungherese, ha vissuto in diversi paesi dell’Europa centro-orientale prima di stabilirsi a Zurigo. Scelse il tedesco come propria lingua, in cui ha composto liriche, scritto racconti e saggi. Questo libro ha vinto nel 2009 il premio dell’Associazione dei librai e degli editori svizzeri.