Franco La Cecla: la vera “green city” la fanno i cittadini
Antropologo e architetto, allievo del grande intellettuale austriaco Ivan Illich, Franco La Cecla ha frequentato nei suoi numerosi saggi i più vari argomenti – dal viaggio alla società dell’informazione, dall’etica alle relazioni amorose – tornando però sistematicamente alla sua prima passione: il rapporto tra l’uomo e lo spazio che abita. All’impatto sociale e culturale dell’architettura, in particolare quella urbana, sono dedicati alcuni dei suoi libri più celebri, come “Mente locale”, “Perdersi” e il discusso “Contro l’architettura”. Al Salone del Libro di Torino per presentare il suo primo romanzo (“Falsomiele. Il diavolo, Palermo“, favola moderna sul dono dell’ubiquità), ha parlato con Greenews.info di responsabilità sociale e ambientale dell’architettura e del futuro delle città.
D)Professor La Cecla, lei ha studiato da architetto, ma ha scelto di non esercitare il mestiere per dedicarsi invece all’antropologia e alla scrittura. Perché?
R) La mia tesi in Architettura consisteva nel progetto di ricostruzione di un paesino alluvionato sull’Appennino calabrese. Si trattava di un lavoro sul campo, portato avanti in collaborazione con i contadini e gli abitanti del paese, che dimostrava già allora la direzione dei miei interessi: non tanto la progettazione in sé degli edifici, quanto il modo di abitare delle persone e delle comunità. Ci ho messo un po’ di tempo a capirlo, fino a quando, organizzando nel 1980 un convegno sull’autocostruzione, sono entrato in contatto con la figura di Ivan Illich. Due anni dopo ho seguito Illich negli Stati Uniti e lì ho studiato antropologia, soprattutto perché mi sentivo ignorante: la mia formazione da architetto non mi aveva fornito basi sufficienti per comprendere cosa significhi davvero “abitare” un luogo.
D) Qualche tempo fa scrisse che gli architetti in genere non colgono “l’essenza narrativa” degli spazi. Cosa intende?
R) Quello che è interessante nell’architettura è come gli spazi sono vissuti e abitati, e molto spesso è il fatto di viverli che li crea. E questo è ciò che gli architetti non capiscono: loro pensano gli spazi e li consegnano vuoti alle persone che li occuperanno, disinteressandosi di ciò che avviene dopo. Io invece volevo scoprire tutta la ricchezza di significati che la gente dà al proprio abitare. Perciò passare dall’architettura all’antropologia è stato per me un percorso molto coerente, naturale.
D) Nei suoi libri lei parla spesso di responsabilità sociale dell’architettura, soprattutto riferita alle città. In questo fardello di responsabilità c’è anche quella ambientale?
R) In questo periodo sto scrivendo il secondo volume di “Contro l’architettura” e uno dei temi che affronto è proprio il modello energetico delle città contemporanee, un modello ormai decaduto e che sarà fondamentale riconsiderare nei prossimi anni. Il funzionamento delle nostre città, con le periferie distanti dal centro, è basato sui trasporti, il che, da un punto di vista ambientale ed energetico, è una follia. Persino il governo cinese ha assunto quest’anno il piano energetico di Greenpeace, perché ha finalmente capito che non è possibile continuare a espandere le città, che invece andrebbero contratte e gestite con una maggiore densità.
D) Significa uno sviluppo in verticale?
R) Non necessariamente. Si può pensare ad esempio a una città in stile giapponese, fatta più di vicoli che di strade, con case a due o tre piani. O al modello europeo, che per secoli ha prodotto città a grande densità, ma di grande qualità, in cui non veniva umiliata la dimensione della strada. Mentre invece in tutti i modelli che si rifanno all’urbanistica classica di Le Corbusier, grattacieli e alti palazzi concentrano la densità facendo sparire la dimensione vitale della strada.
D) L’Earth Day 2014 era dedicato alle Green Cities. I giornali hanno fatto a gara a pubblicare esempi di “città modello” ecosostenibili, spesso costruite da zero in mezzo al nulla, come Masdar negli Emirati Arabi o Songdo in Corea del Sud. Città che però, una volta ultimate, si fa fatica a popolare…
R) Il problema è che le espressioni “Green City” e “Smart City” sono più che altro usate come slogan. Tutte le città potrebbero, e dovrebbero, essere green. Ma non bastano il verde pubblico e gli orti urbani per guadagnarsi l’etichetta di green city: fare un bilancio dei consumi in modo da ridurre le emissioni di CO2 significa compiere tutta una serie di azioni come costruire con materiali diversi, coibentare, usare energie alternative – ad esempio in Germania il 51% dell’energia usata dalle città proviene già da fonti alternative -, ecc. E soprattutto significa avere una precisa visione del futuro. Il mio timore è che possa prevalere una visione un po’ di facciata, in cui ci si curi dell’aspetto green delle città, tralasciando però la sostanza democratica del vivere in un contesto urbano. Una delle questioni fondamentali della green city è, secondo me, la presenza della gente negli spazi pubblici: è importante che le persone utilizzino e vivano la strada, i marciapiedi, le piazze.
D) È per certi versi quello che scrive il giornalista americano David Owen quando, in “Green Metropolis”, parla di incentivare gli spostamenti a piedi (invece che in auto) rendendo friendly strade e quartieri…
R) Peccato che sempre più spesso i regolamenti di sicurezza vadano in direzione opposta… A Parigi, ad esempio, c’è un regolamento comunale che dichiara pericolosi gli assembramenti sui marciapiedi e per questo richiede agli architetti di non progettare negozi con l’affaccio sulla strada. Si sta affermando sempre più l’idea che le città debbano essere controllabili, che l’amministrazione di un centro urbano debba avere a che fare innanzitutto con i servizi di sicurezza e la polizia. Una città è sicura quando c’è gente per strada. Eppure, paradossalmente, si fa avanti una richiesta, forse un po’ pilotata, di spazi non rumorosi e strade “tranquille”, senza locali sotto casa. Insomma, dei luoghi dove tornare da lavoro e andare a dormire. Nel concetto di “residenza” purtroppo non c’è più posto per il rapporto con la strada viva.
D) È l’idea che sta alla base della maggior parte delle periferie italiane, nate come quartieri-dormitorio…
R) Certo, le periferie sono già nate in quest’ottica di “condanna” della strada e del commercio di prossimità. Sono un’utopia sociale creata dalla sinistra degli anni ’70, convinta che gli operai avessero questo tipo di bisogni, ma già allora era un modello finito: la concentrazione della classe operaia in quartieri-dormitorio era una condanna sia per la condizione operaia che per la centralità cittadina.
D) La sfida per il futuro sarà dunque ricompattare le città?
R) Sì, in Europa sarà relativamente più semplice perché, a differenza degli altri continenti, l’espansione urbana è limitata (siamo a un tasso del 2% annuo contro il 5% globale). E soprattutto le città europee hanno un centro forte. Sarà dunque più facile portare avanti politiche di densificazione e di risparmio energetico, e anche – ora che le città si basano più sul lavoro terziario, sul commercio e sul turismo che sull’industria – tornare a un rapporto più diretto tra abitare e lavorare. Penso a un modello “casa & bottega”, che, oltre ad essere vantaggioso sul piano del risparmio energetico e della riduzione degli spostamenti, impedirebbe anche il fenomeno della boutiquizzazione dei centri storici: negozi di moda e lusso che, quando la sera chiudono, lasciano il centro deserto e quindi pericoloso.
D) In “Contro l’architettura” lei parlava dell’esperienza emblematica di Public Architecture a San Francisco: un collettivo allargato di architetti che si ponevano al servizio dell’interesse pubblico con piccoli interventi per migliorare sostenibilità sociale e ambientale della loro città…
R) Adesso il progetto è cresciuto moltissimo e si chiama Architecture for Humanity: è il più grande studio di architetti del mondo, una rete che conta 18 mila professionisti in 44 paesi. In pratica hanno ribaltato il rapporto cliente-architetto: prima scelgono i lavori da fare in zone sensibili (come Haiti dopo il terremoto, Fukushima dopo lo tsunami, le favelas latinoamericane) e poi cercano i fondi per realizzarli, sia attraverso fondazioni come la Google Foundation o la Bill Gates Foundation, che con il crowdfunding. Era comunque interessante la dimensione iniziale del progetto, che operava nel quartiere, nella community: negli Stati Uniti è abbastanza diffusa l’idea che gli abitanti della città possano intervenire in modo pratico sul loro quartiere, per migliorarlo, per prendersene cura. Più difficile trovare questa mentalità in Europa, soprattutto nel Sud, in Francia o in Italia. Servirebbe un lavoro di diffusione della democrazia diretta, ma non in rete, proprio a livello di quartiere: il concetto del kilometro zero applicato all’esercizio della democrazia…
D) Torniamo infine alle Smart City. Se ne è parlato tanto, ma le città italiane a che punto sono?
R) Non mi sembra che si siano fatti grandi passi avanti… Quando si parla di Smart City si trasmette l’impressione di poter gestire una città, attraverso l’informatizzazione e le nuove tecnologie, come si farebbe con una macchina, in modo quasi automatico. Questo è solo in parte vero. La realtà è che i grandi cambiamenti degli ultimi anni nella vita delle città sono avvenuti perché la gente è scesa fisicamente in piazza, modificandone la spazialità. È il riappropriarsi degli spazi urbani da parte delle persone ciò che crea di fatto il cambiamento, non un tecnico in cabina di comando.
Giorgia Marino