Emissioni da carbone: la timidezza UE potrebbe costare 71.000 morti e 52 miliardi di euro in più
Un nuovo rapporto commissionato da Greenpeace e dallo European Environmental Bureau mette in guardia l’Unione Europea sui rischi legati ai nuovi standard di emissione che Bruxelles sta pensando di adottare per le centrali a carbone. E che fisseranno le soglie per inquinanti quali biossidi di zolfo, ossidi di azoto, mercurio e particolato. Composti i cui danni alla salute umana sono comprovati e documentati da un’ampia letteratura scientifica.
Nel documento dal titolo “Health and economic implications of alternative emission limits for coal-fired power plants in the EU”, gli esperti considerano i limiti pensati dall’UE troppo deboli e per questo, pericolosi.
Lo studio ha utilizzato dati ufficiali dell’Unione Europea per produrre una stima dell’impatto sanitario che si avrebbe con l’applicazione della proposta. Ciò che emerge è che la scarsa ambizione dell’Esecutivo europeo potrebbe tradursi in un costo sanitario di 71 mila morti aggiuntive per inquinamento. Decessi dovuti all’aumento del rischio di insorgenza di patologie cardiache, infarto, asma e altre malattie connesse all’esposizione agli inquinanti generati dalla combustione del carbone. Uno scenario che tradotto in termini economici significa la perdita di 23 milioni di giorni di lavoro a causa dell’insorgenza di queste patologie che si trasformerebbe, inoltre, in un aggravio, per i contribuenti europei, di 52 miliardi di Euro tra il 2020 e il 2029.
La riforma tanto criticata riguarderebbe gli standard di emissione per i grandi siti industriali, tra cui le centrali termoelettriche a carbone e lignite. Una revisione che ci si aspetterebbe lungimirante e che invece prevederebbe tetti già in vigore per centrali attualmente operative nella stessa Europa, in Cina e negli Stati Uniti.
Gli effetti delle pallide decisioni dell’UE sono stati, inoltre, confrontati con quelli, molto inferiori, che deriverebbero dall’adozione di standard basati sulle migliori tecnologie disponibili (BAT).
“Il costo sanitario, ambientale ed economico della soggezione dell’UE all’industria del carbone rischia di essere enorme e insostenibile”, ha dichiarato Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia. Che ha aggiunto: “Non esistono scusanti per i politici dell’UE che si rifiutano di applicare tecnologie esistenti che possono salvare migliaia di vite. Il carbone causa danni irreparabili ed è tempo per l’Unione di definire i tempi per il superamento di questa fonte energetica”.
Parole dure che sottolineano la miopia dell’Unione Europea. Ed evidenziano ancora di più la differenza tra quanto è possibile fare per difendere la salute dei cittadini europei e quello che l’Unione Europea vuole concedere per tutelare gli interessi dell’industria del carbone.
Un dato che emerge anche dall’iter di approvazione delle nuove regole. Per mettere a punto la proposta finale, che dovrebbe poi essere in vigore dal 2020 al 2029, un gruppo di esperti si riunirà, infatti, tra l’1 e il 9 di giugno. Per l’occasione, al tavolo dei negoziati, siederanno anche i rappresentanti delle industrie più inquinanti, essendo stati inclusi nelle delegazioni nazionali degli Stati Membri, come dimostrato da un precedente report di Greenpeace, “Smoke and Mirrors – I più grandi inquinatori d’Europa si dettano le regole”.
Tuttavia, l’appoggio quasi incondizionato di Bruxelles alle energie fossili, nonostante pagine e pagine di buone intenzioni targate UE sulle rinnovabili ed il loro relativo implemento, emerge anche da un nuovo studio del Fondo Monetario Internazionale. Che si interroga sul volume dei sussidi che i governi concedono alle compagnie che producono combustibili fossili. Svelando che questo tipo di industria è destinataria dell’equivalente di 10 milioni di dollari al minuto di sovvenzioni, pari a 5.300 miliardi di dollari l’anno. Al netto delle tasse e dei costi non pagati da chi inquina per bruciare carbone, olio e gas. La cifra annuale, definita “scioccante” dal FMI, nel 2015 supererà quella della spesa sanitaria di tutti i governi del mondo e rappresenterà il 6,5% del Pil mondiale.
Secondo lo studio, il combustibile che riceve le maggiori sovvenzioni, a causa degli alti danni ambientali che produce e per il fatto che nessun Paese metta in atto accise significative sul suo consumo, è il carbone, con poco più della metà del totale. Il petrolio, dato il suo grande uso per i trasporti, ottiene un terzo dei sussidi e il gas il resto. La Cina è il Paese che fornisce la maggior parte di queste sovvenzioni (2.300 miliardi di dollari), seguita da Usa (700 miliardi) e Russia (335 miliardi). L’Unione Europea riconosce invece sussidi per 330 miliardi.
Non servono ulteriori dati per capire come questo meccanismo scoraggi gli investimenti in efficienza energetica e rinnovabili.
Ma non servono neanche ulteriori e approfondite riflessioni per immaginare che l’impatto fiscale, ambientale e sul welfare di una ipotetica riforma del sistema di questi finanziamenti potrebbe essere enorme. Eliminare le sovvenzioni nel 2015, infatti, potrebbe aumentare le entrate dei governi di 2,9 miliardi di dollari (3,6% del Pil mondiale), tagliare le emissioni globali di carbonio di oltre il 20% e ridurre del 55% le morti premature legate all’inquinamento dell’aria salvando così 1,6 milioni di vite ogni anno. Scenario ipotetico, appunto. Perché, come d’abitudine, senza la volontà politica il sistema è destinato a perpetrarsi.
Beatrice Credi