“Earthrise”, arte ed ecologia: intervista a Marco Scotini
A Torino si è appena conclusa una serrata e come sempre affollatissima settimana dell’arte contemporanea. Tra Artissima, The Others, Paratissima, la notte bianca delle arti, vernissage e open lab assortiti, si è inaugurata anche la nuova mostra (aperta fino al 21 febbraio 2016) del PAV – Parco Arte Vivente. Terza antologica curata per il centro d’arte torinese da Marco Scotini, critico e direttore del Dipartimento Arti Visive al NABA di Milano, Earthrise prende le mosse (e il titolo) da un’immagine considerata emblematica per la nascita del movimento ambientalista: la celebre foto scattata il 24 dicembre 1968 dall’austronauta William Anders, durante la missione Apollo 8, che ritraeva la Terra vista dalla Luna. Per la prima volta la Terra guardava se stessa attraverso gli occhi dell’uomo; e per la prima volta l’uomo si accorgeva – profondamente e istintivamente – della fragilità e finitudine del suo pianeta. Una consapevolezza che ebbe grande influenza anche nel mondo dell’arte. Ne abbiamo parlato con Marco Scotini.
D) Scotini, si può parlare di arte ecologica? Esiste una definizione?
R) Non è che esista un’arte ecologica, esiste una presa di coscienza ambientale ed ecologica che è possibile trovare anche nell’arte. Anzi, credo che l’arte stessa abbia contribuito in qualche modo a questa presa di coscienza nei confronti del Pianeta. Basti pensare, ad esempio, alla figura di Joseph Beuys, artista tedesco che è stato tra i fondatori del movimento Verde in Germania.
D) Le opere esposte al PAV per la mostra Earthrise sono state da lei definite “visioni pre-ecologiche”, segnando quindi l’inizio, o forse l’antefatto, di una storia…
R) Earthrise si pone come terzo momento di approfondimento rispetto al progetto che abbiamo cominciato la scorsa estate con Vegetation as a Political Agent e poi proseguito con Grow It Yourself: un’archeologia del contemporaneo, il tentativo, cioè, di costruire una genealogia del rapporto fra pratiche artistiche e coscienza ecologica o ecologia politica. Costruendo una storia, questa diventa parte di una tradizione e in qualche modo legittima questa relazione fra pratiche artistiche e ambiente. Nel caso di Earthrise il contesto è la cultura italiana a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, nel momento in cui la famosa foto dell’astronauta William Anders ritraeva per la prima volta la Terra vista dalla Luna, segnando l’avvio di una costruzione ideologica dello spazio e del cosmo. Piuttosto che immaginare programmi di futura colonizzazione di altri mondi, per molti questa immagine segnò un rovesciamento di prospettiva. Gli artisti cominciarono a rendersi conto della finitudine del pianeta, che divenne oggetto di una presa di coscienza antropologica. La Terra cominciò ad essere vista come il “luogo del ritorno” e divenne anche un problema artistico. In questo senso va dunque la fattoria sperimentale Agricola Cornelia S.p.A. fondata da Gianfranco Baruchello o la ricerca di Ugo La Pietra sugli orti urbani spontanei nella periferia milanese. Il ritorno alla terra è ciò che ispira anche i celebri Tappeti Natura di Piero Gilardi, frammenti di paesaggio ricostruiti per salvare ciò che l’intervento umano stava distruggendo.
D) Baruchello, Gilardi e La Pietra si possono dunque considerare i pionieri del movimento ecologico nell’arte italiana?
R) Sì, ma ho aggiunto anche il gruppo di architettura radicale 9999: nel loro Progetto Apollo del 1971 la Luna era rappresentata come una sorta di arca di Noè dove portare la pianta del Partenone, il giardino rinascimentale e tutti i modelli migliori della vita terrestre per salvarli dalla distruzione della Terra. Sempre opera degli architetti di 9999 è Vegetable Garden House, la ricostruzione di un orto comunitario all’interno di una casa, creata per la storica mostra New Domestic Landscape al Moma di New York.
D) All’inizio del rapporto fra arte e ambiente gli artisti si concentrano quindi sul ritorno alla terra, all’agricoltura. Si possono inserire in questa storia anche altre forme di questo rapporto, come la Land Art?
R) In Italia il tema del ritorno alla natura si è visto soprattutto attraverso l’Arte Povera, che in quegli anni era spesso associata alla Land Art americana in varie mostre curate da Germano Celant. Sia l’Arte Povera che la Land Art, tuttavia, guardano al rapporto con l’ambiente per ricostruire il senso del sublime, e lo fanno attraverso la classica contrapposizione assolutista Natura vs Cultura. Questo antagonismo fra Natura e Cultura proponeva il ritorno a un’ancestralità mitica: un’utopia che lasciava inalterato lo spazio dell’azione. Gli artisti che ho chiamato pre-ecologici sviluppano invece la coscienza di una natura fortemente socializzata: l’orto urbano, l’agricoltura spontanea nella città, la presa di coscienza della sostenibilità anticipano varie ricerche artistiche contemporanee. Rivendicare un’origine mitica della natura rimaneva al contrario una condizione estetica, che però non permetteva alcuna azione produttiva o di rivendicazione della terra come tale.
D) Penso a quanto disse a Greenews.info Francesco Bonami a proposito dell’arte “ecologica”: che non funziona perché si propone di cambiare qualcosa, mentre l’arte dovrebbe essere un modo per raccontare qualcosa. Credo che non sia d’accordo con questa affermazione…
R) Nell’arte contemporanea le ricerche oggi sono tantissime e a tutte le latitudini, dal Nord Africa al Medio Oriente al Nord Europa al centro Asia: ovunque c’è una nuova presa di coscienza molto forte che situa l’arte all’interno dell’ambiente. Non è più una questione di pura estetica: pensare l’arte come qualcosa di completamente autonomo e dissociato dalla realtà significa fermarsi al passato. Credo che tutta l’arte contemporanea ormai vada in questa direzione. Sono cambiate troppe cose negli ultimi decenni, anche all’interno degli stessi sistemi di produzione artistica. Un artista come Gianfranco Baruchello, ad esempio, criticava correnti come la Land Art proprio per motivi produttivi. Che senso ha – si chiedeva – spendere tanto denaro per tracciare una linea nel deserto americano? Pensò allora di mettere in piedi una fattoria sperimentale, in cui il denaro venisse davvero investito in un’accezione produttiva, ma nello stesso tempo immaginando nuove forme di convivenza con il mondo.
D) Entrava in una dimensione pragmatica…
R) Ma tutta l’arte è in questa dimensione. È totalmente ideologico dire che l’arte non abbia una funzione o che non serva. Una funzione può essere anche arricchire i collezionisti… Allora se la funzione esiste, lavoriamo affinché diventi attiva, emancipativa e trasformativa della società. Credo che ci sia davvero bisogno di un approccio estetico e immaginativo per ripensare qualsiasi rapporto con il mondo. Rapporto che, in accordo con quanto teorizzato da Felix Guattari (filosofo e psicanalista francese, autore di Le tre ecologie – n.d.r.) possiamo chiamare “ecosofico”. Il vero ambiente si costituisce cioè a partire da tre soggetti: il socius (gli uomini), la psiche (ovvero la dimensione affettiva), e lo spazio fisico vero e proprio. L’arte non può essere isolata, si deve pensare dentro questo rapporto, tra collettività, soggettività individuale e territorio comune, ambiente.
D) Earthrise si concentra sugli anni ’70. Oggi a che punto siamo?
R) Credo che oggi la visione ecologica sia entrata dentro le procedure estetiche, sia stata assimilata dal nostro modo di praticare l’arte. Vengono investiti molti soldi per realizzare progetti fuori dai musei, nello spazio urbano, in contesti comunitari, aperti. Questa è proprio una presa di coscienza ecologica: l’arte sa di lavorare in un ambiente. Nonostante la diffusione di internet possa far credere il contrario, il nostro modo di pensare la realtà non può più prescindere dall’essere situati. Tutto, insomma, si è spostato verso una condizione ecologica dell’operare.
Giorgia Marino