Doha si accontenta del “climate gateway”. Un accordo ponte per ritardare le decisioni vincolanti
L’obiettivo era chiaro: ridurre le emissioni di CO2, rallentare il riscaldamento globale e rilanciare il discorso sui cambiamenti climatici. I buoni propositi c’erano, dunque, tutti: il Summit a Doha, in Qatar organizzato dalle Nazioni Unite, doveva mettere gli Stati dell’intero Pianeta faccia a faccia con le proprie responsabilità. I risultati, tuttavia, non sono stati, a detta di tutti gli osservatori, all’altezza né dell’emergenza né della cassa di risonanza di cui ha goduto l’evento.
Dopo due settimane, i negoziati si sono infatti chiusi (con un giorno di ritardo), con il tentativo messo in campo da Abdullah Bin Hamad Al-Attiyah, Presidente della COP18, per cercare di salvare il salvabile. La delusione della comunità internazionale è palpabile. Molti impegni sono stati ulteriormente posticipati e il fatto che siamo di fronte a una questione ambientale che interessa solo una cerchia sempre più ristretta di Governi è ormai palese. A dividere i 194 Paesi presenti sono state, essenzialmente, due questioni: i dettagli tecnici del “Protocollo di Kyoto bis” e il “risarcimento” che le Nazioni più ricche dovrebbero concedere a quelle più povere per i danni ambientali legati al cambiamento climatico.
In merito al primo punto il “Kyoto 2″, la seconda fase di impegni prevista dal primo Protocollo siglato in Giappone nel 1997, riguarderà solo Unione Europea, con Croazia e Islanda, Australia, Svizzera e Norvegia. Che insieme rappresentano poco più del 15% delle emissioni globali di gas a effetto serra nel mondo, nient’altro che “briciole”. In particolare la riduzione delle emissioni di CO2 dovrà proseguire con un range fra il 25% e il 40% rispetto ai livelli del 1990. Ciascun Paese riesaminerà i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni entro il 2014. Ancora fuori, quindi i “grandi inquinatori”: Usa, Canada, Giappone, Russia, Nuova Zelanda India, Brasile, Messico, Sud Africa e soprattutto la Cina il più grande produttore di CO2 al mondo. Nella maggioranza dei casi nascosti dietro la giustificazione della crisi economica. Inoltre, la misura dei tagli ai gas serra nel periodo 2013-2020 verrà decisa ufficialmente solo il prossimo anno. Per l’inclusione di tutti i Paesi, l’intesa andrà raggiunta entro il 2015, per diventare poi operativa dal 2020. Per ora ci si deve accontentare, quindi, di questo periodo-ponte soprannominato “Climate Gateway”, l’unico compromesso raggiunto.
A nulla, poi, sono servite le lacrime del delegato delle Filippine, che ha raccontato accoratamente del tifone che ha sconvolto il suo Paese. Tutto rimandato, infatti, anche per quanto riguarda la riparazione delle perdite e dei danni causati ai Paesi del Sud per il riscaldamento globale. A Varsavia, sede del prossimo meeting, saranno (forse) decisi accordi istituzionali per rispondere alla questione. Questo punto è stato, pertanto, oggetto di forti discussioni soprattutto tra i Paesi in Via di Sviluppo – che si ritengono vittime delle azioni del Nord che hanno alterato il clima – e gli Stati Uniti del “verde” Obama, che temono pur sempre che un tale meccanismo possa condurre a richieste di risarcimento al di fuori di quanto previsto dagli accordi.
Un altro punto all’ordine del giorno è stato il Green Fund, destinato ad aiutare i Paesi più poveri nella transizione verso un sistema produttivo a basso impatto ambientale, da realizzare attraverso trasferimento tecnologico e di know-how. Sul tavolo sono stati messi per ora 8 miliardi di dollari, tanti ma pochi. Il testo di Doha spinge gli Stati sviluppati ad “annunciare” nuovi aiuti economici quando le circostanze finanziarie lo permetteranno e a presentare all’incontro sul clima del 2013 le informazioni sulle loro strategie per smobilizzare fondi, al fine di arrivare ai 100 miliardi di dollari promessi in passato entro il 2020. Unico veto posto dagli Stati Uniti è che non ci siano concessioni sui brevetti di tecnologia green.
La comunità internazionale “dei potenti” presenti a Doha ha dato l’impressione di non guardare in faccia la drammatica realtà. La sfida per il clima è, infatti, una corsa contro il tempo come mostrano, senza mezzi termini, le più recenti notizie scientifiche. Che danno la misura del gap esistente tra l’avanzamento delle conoscenze sul tema e l’inazione politica.
Secondo gli ultimi dati di Banca Mondiale riportati nel report “Turn Down the Heat: Why a 4°C Warmer World Must be Avoided“ la paralisi comporterà un aumento di 4°C della temperatura media della Terra entro il 2060. L’agenzia statunitense NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) e l’Organizzazione Meteorologica Mondiale dell’ONU (WMO) hanno anche ricordato che la presenza di gas climalteranti in atmosfera – come CO2, ozono e metano – nel 2011, ha raggiunto la concentrazione record di 473 parti per milione (ppm). Sono in aumento, poi, anche gas serra più rari: esafluoruro di zolfo, idroclorofluorocarburi e idrofluorocarburi. Ciò porterà inevitabilmente, ad acuire i devastanti effetti che provocano gli sconvolgimenti climatici ai quali possiamo già assistere in tutto il mondo. Il futuro, sostengono i climatologi, potrebbe riservare ondate di calore estremo, siccità, calo delle scorte alimentari, aumento del livello dei mari. In questi ultimi vent’anni, la quantità di CO2 immessa in atmosfera, 375 miliardi di tonnellate, è più del doppio rispetto a quella che foreste ed oceani riescono a riassorbire convogliandola nel ciclo del carbonio della biosfera. Il risultato è che i livelli oggi raggiungono le 390 ppm, quota pericolosamente vicina a 450 ppm, numero che si ritiene essere il punto di non ritorno verso un aumento globale di temperatura superiore ai 2°C. Per rimanere sotto questa soglia, spiegano gli scienziati, entro il 2020 le emissioni devono essere ridotte di 44 miliardi di tonnellate, obiettivo irraggiungibile stando agli attuali impegni presi dai Governi.
Per quanto riguarda poi il Vecchio Continente, l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) ha recentemente pubblicato una ricerca dal titolo “Climate change, impacts and vulnerability in Europe 2012” in cui pone l’attenzione sulla vulnerabilità dell’Europa nei confronti del cambiamento climatico. Gli ultimi dieci anni hanno mostrato i segni evidenti della trasformazione. Sono stati i più caldi mai registrati e quelli in cui si è registrata una considerevole diminuzione delle precipitazioni nelle zone meridionali. In controtendenza, invece, il Nord dell’Europa dove si osserva un aumento della piovosità. Senza parlare poi dello scioglimento dei ghiacciai che interessa Groenlandia e Mar Glaciale Artico. Gli eventi estremi, secondo gli esperti, sono destinati ad accentuarsi e i costi dei danni, già altissimi, saranno sempre maggiori. A proposito di ciò, il documento sottolinea come alcune Regioni del Continente saranno meno in grado di adattarsi ai cambiamenti climatici, anche a causa delle disparità economiche esistenti tra le diverse aree. Gli effetti del cambiamento climatico potrebbero rafforzare queste differenze, minando la sopravvivenza stessa dell’Unione Europea.
Il Ministro dell’Ambiente italiano Corrado Clini, di ritorno dal Qatar, ha dichiarato: “Il bicchiere di Doha è per tre quarti vuoto e per un quarto pieno. Invece di fare un passo avanti, la comunità internazionale ha fatto un passo indietro, perché non si è riusciti a trovare un accordo in grado di dare concretezza e continuità di impegni presi con il Protocollo di Kyoto”. Ipse dixit.
Beatrice Credi