Cimabue, la storia incredibile di un giovane lupo
Pubblichiamo “Cimabue”, di Alessandro Barabino, uno dei nove racconti vincitori del Premio letterario su tema naturalistico “Michele Lessona”, che ha celebrato ieri sera, al Museo di Scienze Naturali di Torino, la sua prima edizione.
La narrazione in oggetto ha vinto la Selezione Racconti Adulti a pari merito con altri 4 brani che andranno on line nelle prossime puntate.
Greenews.info, media partner del premio, pubblicherà, per otto settimane, tutti i racconti vincitori nella rubrica “Racconti d’Ambiente“.
Ligabue, il lupo che fece parlare di sé per aver percorso centinaia di chilometri dai boschi dell’Appennino di Parma fino alle Alpi Marittime, morì lasciandoci, grazie a un radio collare, la prima testimonianza scientifica di quanto si possa spostare un giovane lupo “in dispersione”, cioè in cerca di un territorio dove poter formare un nuovo branco.
La storia che racconta il gufo del grande faggio agli animali del bosco di Palanfré non ha nulla a che vedere con la scienza umana. Anzi ha quasi del soprannaturale…
Oggi è scesa la prima neve. Già ieri ne avevo avvertito i segni premonitori, mentre volavo su un sentiero utilizzato dai lupi per spostarsi inosservati sopra il Vallone del Bousset: sul bel tappeto di foglie, colorate dal giallo e dal grigio dell’autunno, grosse lenti di pioggia imprigionavano minuscoli aghi di ghiaccio. Nella valle intorno era tutto un vociare di colori smorzato però da quegli accumuli di nebbia che a volte si posano sui pendii, altre volte sul fondovalle. Un po’ dovunque, i massi erratici sembravano camuffati per il carnevale: ricoperti di licheni e muschi, agghindati di foglie rosse e marroni, spiccavano tra muretti a secco e coltivi inselvatichiti.
Con la neve di oggi, quella tavolozza botanica si è fatta bianca come lo diventa la girandola arcobaleno al soffio del vento. Chissà se sarà un inverno terribile come gli ultimi tre? L’ermellino del Pagarì dice che quest’anno le grandi nevicate arriveranno tardi e lui dovrà aspettare ancora un po’ prima di mettersi a giocare a nascondino con il manto bianco. Sta’ a vedere che ci toccherà una primavera fredda e nevosa come quella affrontata quell’anno dal mio amico Ligabue, il lupo. Dopo aver vissuto mille peripezie in Appennino, tra Emilia e Liguria, era giunto proprio qui, a Palanfré, nelle Alpi Marittime. Non dimenticherò mai il suo sguardo: esprimeva timore e fierezza allo stesso tempo. Chi meglio di un gufo sa leggere nell’intensità degli occhi di un animale i segni del suo carattere selvatico?
La nostra amicizia cominciò così, con quel muto incrocio di sguardi e di esistenze e fu una di quelle amicizie riservate a pochi. Ma nel regno della Natura ciò può capitare anche tra specie diverse. Spesso ci incontravamo all’imbrunire, per far “caciara” insieme; i miei occhi arancioni e i suoi gialli si cercavano tra le ombre dei faggi, lasciando il tempo al mio uuh-ohh e al suo uuuhhuuhuuu di intimorire il silenzio del bosco. A volte, Ligabue non si faceva vedere per giorni: non poteva rinunciare alla sua indole selvatica e solitaria. Questa è la forma di libertà che la natura riserva a tutti gli animali: vivere per quello che si è, seguendo ciascuno il proprio istinto.
Una mattina di fine gennaio, mentre i primi raggi spuntavano da Monte Vecchio, udii la neve scricchiolare al margine del bosco. Girai il capo, come solo un gufo sa fare, e scorsi Ligabue che sorreggeva col muso un altro lupo. Gli volai incontro incuriosito: una femmina! Malgrado i segni della stanchezza, la lupa conservava una straordinaria selvatica bellezza: lineamenti fini, livrea stilosa, occhi… che occhi! Il suo sguardo era sublime, enigmatico e dolce a un tempo. Mi ricordò una libellula blu…Ligabue mi sussurrò di averla incontrata lungo la dorsale che si allunga dal Colle del Sabbione verso la Bassa d’Ourne, rintanata in un vecchio bunker dove lui era entrato per ripararsi dalla bufera. Dal tono della sua voce, dal modo in cui si curava di lei, mi apparve chiaro che il mio amico provava per quella lupa, Zenobia, un amore inatteso. E vidi gli occhi di lei, quella mattina, incendiarsi come cristalli di neve all’alba: i sentimenti di quella femmina avevano ritrovato finalmente il loro posto nel cuore.
A maggio dal loro amore nacque un solo cucciolo: fatto eccezionale, straordinario in natura, perché di solito ai lupi nascono tre o quattro lupacchiotti. La felicità spinse i genitori a salire sulla cima della Rocca dell’Abisso per ululare alle valli di frontiera la nascita del loro unico figlio, che fu chiamato Cimabue…La mamma di Cimabue, però, aveva un segreto: molti mesi prima, mentre era in dispersione, sfortunatamente si era imbattuta in un branco di cani inselvatichiti che vivevano sui monti del Cuneese. Stremata dalla fame e indebolita dalla fatica, Zenobia, per sopravvivere, aveva dovuto diventare la compagna di Shark, il cane a capo di quei randagi, temuto per la sua ferocia. Sottomessa, aggredita e ferita più volte, non appena aveva ripreso un poco le forze, alla prima occasione la lupa era fuggita verso la libertà. Mentre i cani inselvatichiti continuavano a darle la caccia, il destino aveva legato le sue giornate a quelle di Ligabue. Tutti noi uccelli della faggeta sapevamo che Ligabue, Zenobia e il loro cucciolo Cimabue vivevano in pericolo costante: ne seguivamo in volo le mosse…
In piena estate, per cercare di allontanarsi dal pericolo, la famiglia di lupi cominciò a spostarsi silenziosamente tra i monti, seguendo crinali e guadando torrenti. In quell’incessante fuga non v’era valle, dalla Tanaro alla Po, nella quale i tre lupi non avessero un sicuro rifugio in cui potersi rintanare in caso di minaccia, fosse una “truna” abbandonata o un anfratto sottoroccia. E non temevano soltanto il branco di cani. Temevano l’Uomo. Una paura atavica e viscerale li spingeva a sfuggirlo.
Un pomeriggio d’autunno, mentre le cime dei monti si nascondevano tra le nuvole grigie in attesa del temporale, i miei amici lupi furono attaccati dal branco di Shark. Accadde lassù, al Colle dei Termini, antico passaggio che da Borrello, in alta Val Corsaglia, traghetta verso la Val Tanaro di Ormea. Il papà e la mamma di Cimabue riuscirono a mala pena a nascondere il giovane lupetto tra gli anfratti della grotta della Ciuaiera. Poi, per allontanare il pericolo dal figliolo, si fecero inseguire oltre le Rocche di Perabruna e nessuno li vide più. Probabilmente, trovarono la morte tra le falesie rocciose che precipitano sulla Val d’Inferno.
Vi sono luoghi, in natura, che palesano nel nome il loro carattere sinistro e l’aspetto inquietante con cui si manifestano agli occhi. Luoghi dove aleggiano antiche leggende, capaci di risvegliare brividi nascosti tra le pieghe dell’anima. In quei luoghi Cimabue rimase nascosto per giorni, salvandosi così la vita. Vagava di notte, quando Shark e i suoi randagi dormivano, e si riposava di giorno nascondendosi nella boscaglia di ontani, cibandosi di quello che trovava, anche dei rifiuti lasciati dagli uomini. Lo animava la speranza di rivedere i suoi genitori ancora vivi.
Purtroppo, di loro non v’era traccia. Domandò notizie alla volpe del bosco delle Navette, alle marmotte del vallone di Malabergue, ai gracchi del Pian della Turra, ma nessuno aveva più visto Ligabue e Zenobia dopo l’attacco dei cani. Persino il gipeto dell’Isterpis, nel suo maestoso volo alpino, non aveva potuto dare al lupetto la notizia che andava cercando.
Passarono i mesi e ogni giorno Cimabue doveva fare i conti con le avversità: se non erano i metri di neve, il freddo polare o la bufera di vento, era la fame (“da lupi”, appunto) e la solitudine di un giovane senza l’amore della famiglia. In quel vagare solitario, scoprì però di avere tanti amici tra i monti. Tra questi non c’ero solo io, il gufo del faggio secolare di Palanfré, amico fraterno del suo papà, ma anche l’ermellino bianco del Pagarì (candido come la neve se non fosse per la punta nera della coda) e la rana rossa della torbiera del Valasco (le rane hanno sempre colori particolari).
Ben presto, tuttavia, si accorse di avere un nemico acerrimo, che non gli dava tregua: c’era infatti un umano misterioso che voleva a tutti i costi sterminare i lupi sulle Alpi per convincere le genti di montagna e di pianura che a comandare sulla natura deve essere sempre e solo lui, l’Uomo. Questo misterioso personaggio, che copriva sempre il viso quasi per non mostrare mai la sua vera faccia, il che lo rendeva più minaccioso della sua stessa ombra, era chiamato dagli animali del bosco con il nome di Sakè.
Il gallo forcello del Pian di Funs, un uccello schivo ma sincero che parla per versi, soffia e rugola con “tzimènt” (come dicono quelli del Kyé), un mattino era stato spaventato a morte da Sakè, che si aggirava con fare furtivo tra eriche e rododendri, e così aveva commentato quel fare molesto e indisponente: «l’umanità sta passando dei momenti difficili. L’ignoranza e l’arroganza la stanno facendo da padroni e l’Uomo è quasi diventato un parassita della Natura».
La ruota del tempo, nel suo ciclico rotolare, non aveva certo tolto al giovane Cimabue il suo unico pensiero: Ligabue e Zenobia. Ah, se i suoi genitori fossero stati ancora con lui! Gli avrebbero di sicuro insegnato come scampare ai pericoli di Shark e alla minacciosa insidia di Sakè… purtroppo, doveva cavarsela da solo. Ma fu proprio grazie alla solitudine a cui il destino lo aveva costretto che Cimabue imparò l’arte della sopravvivenza, crescendo nei giorni e forgiando nel suo corpo una forza straordinaria, per certi versi quasi soprannaturale.
Nella primavera successiva su nei pressi di Sant’Anna, dove un tempo le mani sapienti battevano le fascine di segale, Cimabue rischiò un giorno di essere catturato da Sakè, che si era accordato con due bracconieri. Il sole stava tramontando dietro la cima dell’Asta, quando il lupo scorse la carcassa di una pecora nel prato e uscì allo scoperto per raggiungerla. Aveva abboccato all’esca: i due, appostati dietro un muretto a secco, presero la mira per ucciderlo. In quell’attimo Cimabue provò un tremito inusitato, che invase il suo corpo con inaudita violenza. L’istinto e la paura lo misero in fuga. Con pochi balzi fu tra le felci e scomparve nel nulla, lasciando i due uomini a cercare invano. Li vedeva muoversi rabbiosi, sconcertati. Ma loro non vedevano lui. Il giovane lupo aveva appena scoperto di avere un potere straordinario: in caso di rischio, un brivido lo scuoteva da muso a coda, facendolo diventare invisibile. Rendersi introvabile, sparire, volatilizzarsi come per magia. Cimabue aveva in sé quel dono: la Natura aveva affidato a quel lupo un segreto di cui nemmeno il più grande alchimista ha mai scoperto la formula.
Un giorno di prima estate, Cimabue stava trottando verso le Grange Tibert, poco lontano dalla dorsale che separa le valli Maira e Grana. Lì fu avvistato da Shark e dai suoi cani randagi. Cominciò un inseguimento furibondo. La paura di Cimabue era tale che, mentre fuggiva, “se la faceva sotto”, nel vero senso della parola: schizzava cacche ovunque! Un cane che gli era alle calcagna pestò proprio una di quelle “fatte”, che esplose emanando una puzza terribile, pestilenziale a tal punto da scacciare Shark e i cani del branco. Cimabue aveva scoperto un altro suo eccezionale potere: in caso di fuga le sue cacche diventavano una specie di mina batteriologica: se pestate dagli inseguitori, emanavano un fetore cosi nauseabondo da tener lontani i nemici.
Durante l’inverno successivo, Cimabue cadde in un’altra trappola preparata da Sakè. Una tagliola nascosta sotto la neve scattò sulla sua zampa, imprigionandolo nel bosco d’Ambrin. Il dolore fu così intenso che il lupo cominciò a guaire, richiamando il branco di cani randagi, intento in quel momento a predare pecore al pascolo di Esterate. L’occasione era davvero ghiotta per quegli scagnozzi a quattro-zampe: potevano finalmente dimostrare al loro cane dittatore quanto fossero forti anche loro, portandogli i resti del lupo sbranato. Sarebbero tornati dopo al gregge, con calma…
Il lupo, in trappola, fu velocemente accerchiato: ormai le fauci dei cani, spalancate verso di lui, colavano bava cattiva e l’alito della morte puzzava proprio da vicino. Spinto dalla disperazione, Cimabue lanciò un ululato potentissimo. Così potente che ruppe i timpani ai suoi nemici, facendoli fuggire dal dolore. In quel momento Ono e Rino, un guardiaparco e un lupologo delle Alpi Marittime, erano intenti a parlare al cellulare con il pastore del gregge, inferocito per l’ennesimo attacco alle sue pecore e nello stesso tempo stupito di come quei randagi si fossero ritirati in gran fretta. Improvvisamente, l’ululato di Cimabue interferì nella telefonata e d’un botto, sullo schermo dei telefonini, apparve la scena del lupo ghermito dalla tagliola. Attoniti e increduli, gli uomini riconobbero il luogo di quella strana immagine digitale e vi si recarono di gran carriera. Ono e Rino temevano uno scatto d’ira del pastore, che avrebbe così avuto l’occasione per regolare un paio di conti in sospeso…
- Non ucciderlo! - Gli gridarono al loro arrivo, vedendolo sopra al lupo.
Ma in realtà s’accorsero che il pastore era intento a liberare la bestia dalla micidiale presa della tagliola.
Quasi non credevano ai propri occhi: il nemico per antonomasia delle pecore era lì, inerme, svenuto nelle braccia di un pastore, che gli stava salvando la vita. Insieme curarono la ferita alla zampa: per fortuna l’osso non era rotto. Ma restava il mistero dei cellulari… che cosa diavolo era successo?I tre uomini concordavano sul fatto di aver sentito l’ululato al telefono: tutti avevano visualizzato la stessa immagine sullo schermo. Il pastore lanciò la battuta che d’allora in poi non avrebbe più detto al cellulare dove aveva condotto il gregge… non si sa mai che il lupo stesse ascoltando!
Quando Cimabue si svegliò, giusto in tempo per vedere le sagome umane allontanarsi tra gli alberi, si leccò la ferita, sentendo il gusto amaro di una medicina… Ma come? Uomini che salvano un lupo… e i cani fuggiti? Ci pensò un po’ su… Capì di avere un terzo incredibile potere: poteva emettere ululati ad altissima frequenza, che stordivano e mettevano in fuga i nemici. Ma non solo! Modulando la frequenza, riusciva a comunicare con gli uomini, entrando nella rete dei cellulari. La cosa lo sconvolse, più che altro perché dell’uomo non si fidava per istinto.
Questa vicenda aveva aperto un varco così profondo nelle sue convinzioni da far vacillare ciò che da generazioni si diceva: l’Uomo e il Lupo non potranno mai convivere. Quando Cimabue mi raccontò dei suoi “superpoteri”, io gonfiai le penne dallo stupore. Cosa stava combinando quel lupo? Quanto quella manifestazione era segno dell’evoluzione naturale e quanto una mutazione improvvisa?
Chiedemmo un parere anche al pipistrello di Andonno: lui, di trasmissioni di onde radio, era esperto depositario. Ma non ne cavammo granché: mentre il suo sonar si attivava al crepuscolo per cacciare, l’ululato in radiofrequenza di Cimabue, come gli altri due “superpoteri”, funzionavano solo in caso di pericolo. Il mio amico lupo mi guardò facendo una smorfia…
-Ti conosco, mascherina! – gli dissi – non avrai mica pensato di intercettare il cellulare del pastore per sapere dove mette il gregge?
- Gufo, non gufare! – rispose Cimabue un po’ seccato – A volte il sentiero su cui cammini non permette scelte, non puoi che avanzare, senza nemmeno sapere cosa aspettarti dal futuro… In questi casi, o credi in te, nelle tue capacità, o rischi di uscirne malconcio.
In fondo, quel lupo era come un uccello al primo volo dal nido: doveva lanciarsi nel vuoto senza sapere come sarebbe andata a finire, facendo affidamento solo su quell’istinto, anzi su quei “poteri”, di cui la natura lo aveva dotato.
- Ah, la Natura… – sospirò Cimabue – tesse trame così complicate nella loro semplicità che a volte la cosa più semplice è impossibile da capire.
- Vallo a dire a Sakè … – lo provocai – anzi, fagli una telefonata!
Se ne uscì dal bosco sogghignando, trottando sbilenco, e chissà come capii che per un po’ non avrei più rivisto quello strano lupo, che per salvarsi la vita poteva rendersi invisibile, lanciare cacche fetenti e addirittura parlare al cellulare con gli uomini… E`passato molto tempo da allora, ma so che un giorno o l’altro vedrò un’ombra muoversi veloce tra il fogliame o sotto una parete di roccia e i nostri sguardi si ritroveranno. Non succede forse così tra amici?
N.d.A. Approfondimento sui tre “superpoteri” del lupo Cimabue
In realtà i “superpoteri” in natura sono fenomeni abbastanza comuni. Pensate al sonar del pipistrello, al volo del gipeto (capace di librarsi in aria per centinaia di chilometri), al mimetismo dell’ermellino, che in inverno diventa bianco come la neve per sfuggire ai predatori.
Sulle nostre montagne, l’orchidea selvatica assume forme e colori che richiamano certi insetti, sicuri di accoppiarsi con la femmina della loro specie; questi, nel tentare l’approccio amoroso, si cospargono di polline, garantendo così alla pianta la riproduzione.
Rendersi invisibili o oltremodo visibili sono dunque due facce della stessa medaglia: piante e animali, durante la loro evoluzione sulla terra, hanno sviluppato delle strategie naturali, necessarie alla loro sopravvivenza.
Lo sparire improvviso di Cimabue, qui raccontato, richiama quel “mimetismo” cui ho accennato. E`lo stratagemma con il quale un lupo riesce a rendersi invisibile nel folto di una boscaglia, grazie al colore del pelo e al suo atteggiamento elusivo.
Nel regno animale, un carnivoro, con la sua “fatta” (cioè con il suo escremento), comunica la sua presenza e il suo territorio.
Se chiedete a un lupologo (sono chiamati così i ricercatori del Progetto Lupo Piemonte) quanto puzza una cacca di lupo, potrebbe condurvi in laboratorio, dove come minimo sarete avvolti da un alone nauseabondo che vi farà allontanare in fretta. Le ghiandole anali dei lupi secernono infatti sostanze particolarmente odorose, che danno il caratteristico fetore alle loro fatte.
Quando un lupologo trova una fatta, la raccoglie (prendendo nota della posizione col gps) per analizzarla poi in laboratorio. Così capisce che cosa ha mangiato quel lupo. Se poi la fatta è fresca, con l’analisi genetica del DNA egli può scoprire a quale animale appartiene l’escremento.
Collegando la posizione della cacca all’animale che l’ha depositata, il lupologo riesce a tracciare la rete degli spostamenti dei lupi nel corso delle stagioni. Facendolo per molti anni, elabora informazioni precise e inequivocabili sulle dinamiche dei branchi e sulle loro dimensioni.
Anche con questo prezioso lavoro scientifico si cercano le soluzioni per rendere possibile la convivenza Uomo-Lupo; la posizione di chi vorrebbe sterminare il lupo e farlo sparire dalle nostre montagne è solo figlia dell’ignoranza, che è uno dei grandi problemi della società umana, come sostiene il gallo forcello di Pian di Funs…
Se avrete voglia di inoltrarvi lungo i sentieri alpini all’imbrunire, con un po’ di fortuna potrebbe capitarvi di sentire l’ululato dei lupi, impareggiabile sistema di comunicazione nel branco.
Grazie all’ululato, il lupi consolidano le proprie relazioni e annunciano la presenza del loro branco sul territorio.
I ricercatori usano al tecnica del ”woolf howling”, l’ululato lanciato con registratori (ma i più bravi lo fanno a voce) per stimare la presenza e la composizione dei branchi in un territorio. Ogni lupo, infatti, modula il proprio ululato a tal punto che un orecchio umano attento e addestrato riesce a distinguere gli adulti dai cuccioli, informazione preziosa per chi studia questi animali. Non aspettatevi però di ricevere una chiamata al cellulare da Cimabue: sarebbe davvero pretendere un po’ troppo!
Infine, una riflessione: la Natura educa? Charles Darwin ci insegna che la Natura seleziona. Che cosa c’è di educante nel vedere un lupo che sbrana un capriolo o una pecora? E’ una situazione drammatica, che comporta la morte violenta di una creatura vivente.
È la cultura naturalistica che educa; attraverso percorsi di osservazione, studio, ricerca possiamo davvero apprendere molto dalla Natura. Allora anche la morte di un preda sbranata dal lupo assume un significato differente, perché permette la vita al predatore. Se vogliamo, continuiamo pure a gridare “al lupo!” Oppure, imparando a conoscere la Natura, possiamo lasciare che il lupo sia lupo, con buona pace dell’Uomo.
Alessandro Barabino