Bio, non bio e “bio” ma non troppo. Labirintite da Vinitaly
Anche il 51° Vinitaly si è chiuso, con un grande successo di pubblico (128.000 presenze) e di business (30.200 buyers internazionali). Ottimo. Io, però, ne esco piuttosto confuso.
Quando 10 anni fa ho iniziato ad ascoltare le storie dei produttori di vino bio (e seguire il mercato del biologico in generale) mi sembrava tutto più facile e la traiettoria più lineare. L’Italia, semplicemente, non era ancora pronta a recepire il messaggio, se non in nicchie di consumatori salutisti o ambientalisti. E i produttori “convenzionali” – così come la GDO – potevano allegramente fregarsene di quei pochi “invasati” che gli rodevano quote dello zerovirgola.
Il mercato mondiale e nazionale, però, ha continuato a crescere, ogni anno, a doppia cifra e quando i soldi in ballo diventano tanti tutto inevitabilmente si complica. I convenzionali non possono più ignorare il biologico e il biodinamico o liquidarli con una battuta, sono ormai obbligati a confrontarsi, a formarsi un’opinione più strutturata in merito. E a prepararsi a rispondere alla domanda dietro l’angolo: “Ma tu, perché non fai bio?”. E qui, apriti cielo, scatta il pandemonio.
Cercherò di fare una sintesi, senza pregiudizi, delle osservazioni empiriche e delle testimonianze raccolte in fiera, anche se il compito è quantomai arduo…
Partiamo da un dato oggettivo: l’area espositiva Vinitalybio si è ancora ristretta e assomiglia sempre più a una riserva indiana, mentre sembrano godere di un leggero ma crescente favore Vi.vi.t (Vigne Vignaioli Terroir, l’area degli “artigiani” del vino che cercano l’autenticità) e F.I.V.I (la Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti). Le ragioni potrebbero essere molto “italiche”: il biologico è un disciplinare, figlio di una normativa europea recepita nell’ordinamento italiano, il resto è un mood, una filosofia, che non richiede la compilazione di carte né verifiche da parte di enti certificatori. E si sa che gli Italiani sono più attratti dagli stili di vita poco regolamentati che dalle leggi… Questo non significa, tuttavia, che siano diminuiti, in fiera, i produttori bio certificati, anzi! Li si trova ovunque nei padiglioni regionali. Il punto (su cui riflettere) è che, sempre più, molti di loro non vogliono “autoghettizzarsi”, perché si sentono innanzitutto produttori di vino, poi produttori di vino di una determinata zona geografica e poi produttori di vino bio. Per loro è scontato che il biologico debba diventare la normalità, così come molti ritengono che il vero successo della green economy sarà compiuto solo quando riprenderemo a chiamarla economy e l’aggettivo green non sarà più necessario.
E a questo proposito c’è una buona notizia (non scontata): tutti, ma proprio tutti quelli con cui parlo (convenzionali e “integrati” compresi) sono d’accordo che il futuro della viticoltura debba andare nella direzione del “biologico”! Ma…un passo oltre questa dichiarazione comune di intenti si apre la voragine dei distinguo. Innanzitutto, mi ricorda, un produttore piemontese dell’area FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti) “il vino si fa in vigna e non in cantina” e quindi lui può pensare, in futuro – quando ci saranno tutti i preparati necessari a sostituire i fitofarmaci attuali – di diventare biologico in vigna, ma non ci pensa nemmeno di dover certificare l’iter in cantina. In sostanza vorrebbe tornare a una normativa fa, alle vecchie etichette in cui, prima di “vino biologico“, si scriveva “vino ottenuto da uve provenienti da agricoltura biologica”… “Eh già”, ribatte un pioniere del biologico certificato, “e le chiarificazioni e il filtraggio e le altre pratiche in fase di vinificazione? “.
Ma è vero, chiedo a un altro produttore, che Gaja, di fatto, fa biologico ma non gliene frega niente di metterlo in etichetta? “Certo, sta facendo un lavoro spettacolare, addirittura in biodinamica!”. “Non mi risulta…”, controbatte il pioniere di prima.
“Quello che conta è che il vino sia buono!” tuona un altro ancora. Ok, siamo tutti d’accordo, ma i trattamenti che alcuni continuano a fare in vigna solo deleteri per l’ambiente, gli spiego, e non è l’unico modo possibile per fare vino buono… “Vedrai che in cinque anni li tolgono dal mercato quei prodotti lì (i fitofarmaci, NdR), tanto le multinazionali stanno già investendo sui prodotti per l’agricoltura biologica, è sempre roba loro!“, mi risponde con un tono complottista. Un collega rincara la dose: “Anche ‘sto glifosato… sì, farà male, ma com’è che adesso è scattata la guerra? Sta a vedere che sono loro (le multinazionali, NdR) che hanno iniziato perché devono vendere altri prodotti!”.
“Io non diserbo più la vigna, non c’è quasi più nessuno che lo fa“, mi tranquillizza un piemontese del Monferrato, diventato sito Unesco con Langhe Roero. Ma… (c’è sempre un ma in questi colloqui vinitalyani), “il diserbo sottofila quello lo devi fare…”. “E – mi dice un vicino di stand – guarda che anche quei metodi col vapore, mica inquinano meno! E’lentissimo, ci impieghi una vita, e alla fine quanto gasolio (del trattore, NdR) hai consumato?”.
E poi il leit motiv che torna nell’infinita diatriba tra bio e non bio: “io lavoro già da tempo moooolto sopra al disciplinare bio“, rivendica un convenzionale. “Già, e chi lo controlla? E nelle annate difficili come il 2014 cosa ha fatto?”, ribatte un biologico certificato invocando il ruolo della “parte terza” come garanzia.
Lancio una modesta proposta a chi vorrà raccoglierla: per evitare che il consumatore cada in una deprimente confusione su cosa sia effettivamente più sano, pulito e giusto, sarebbe forse ora di stimolare un maggiore confronto fuori dai recinti, tra produttori bio e non bio, così che, intanto, si conoscano e capiscano meglio tra loro, la smettano di seminare zizania e si scambino buone pratiche, nell’interesse di tutti – invece di farsi le scarpe uno con l’altro.
Andrea Gandiglio