Viaggio in Svizzera con famiglia, tanti mezzi pubblici e due auto
Chiunque abbia figli piccoli sa che non è facile né rilassante spostarsi in viaggio. Tantomeno se si cerca di farlo ricorrendo massicciamente ai mezzi pubblici e, per di più, nel bollente periodo estivo, che mette a dura prova la capacità di attesa e sopportazione. Quest’anno però – complice la nascita della mia piccola (2 mesi) e la passione del più grande (2 anni) per i treni – ho voluto provarci, scegliendo, per questo viaggio di 5 giorni tra Piemonte e Svizzera, le modalità che più potessero rispecchiare, a mio avviso, “l’esperienza comune” e una facile accessibilità. Ho testato cioè una formula “mediamente ecologica“, che mi consentisse di capire cosa una famiglia può ragionevolmente fare, oggi, per conciliare il piacere del viaggio con la sostenibilità ambientale. Di ogni viaggio è infatti possibile una versione “estremamente ecologica“. Avrei potuto andare in bici da Torino a Domodossola, portare i bambini in spalla per chilometri e andare a dormire in boschi isolati. Forse a me sarebbe anche piaciuto, ma, come tanti, avrei rischiato il divorzio e l’insignificanza della testimonianza per la maggior parte dei lettori. Quello che vi racconterò brevemente è invece un viaggio fattibile da chiunque, senza grandi sforzi, organizzato last minute, cercando, in un solo giorno e senza guida, informazioni su internet e prenotando via email, telefono, o tramite siti di booking.
L’Oberland bernese era la meta prefissata, ma per chi, come il sottoscritto, crede ancora che il bello del viaggio sia il durante e non l’arrivo, i mezzi per andarci non sono affatto secondari. Ho quindi scoperto l’esistenza della Ferrovia delle Centovalli, che dal 1923 collega Locarno a Domodossola – dove la tratta italiana, ingiustamente poco pubblicizzata, viene chiamata Vigezzina (in onore alla Val Vigezzo) – ed è percorsa da un confortevole e moderno trenino panoramico che consente di ammirare il paesaggio.
Da Torino a Domodossola però ci devi arrivare e Trenitalia certo non aiuta. Le soluzioni possibili (quasi tutte via Milano) prevedono sempre almeno un cambio e la durata non è mai inferiore alle tre ore, troppo per bambini che dovranno sopportare un altro viaggio di eguale durata. Accetto quindi il compromesso di andare in auto fino a Stresa, sul Lago Maggiore, e poi, da lì, prendere il regionale per Domodossola. L’auto la potrò comodamente recuperare rientrando in Italia non più col trenino, ma attraversando in battello il Lago, sempre a partire da Locarno. Una soluzione che mi conquista subito, perché asseconda la mia passione per “l’anello”, dove il ritorno non è mai uguale all’andata. Da Torino a Stresa percorriamo 138 km. in 1 h. 55′, come previsto da Via Michelin, spendendo 28,82 euro (16,22 di carburante e 12,60 di pedaggi autostradali), ed emettendo 20 chili di CO2, secondo il calcolo di CO2Balance.
A Stresa abbiamo il tempo di parcheggiare vicino alla vecchia stazione (strisce bianche, poche ma gratuite) e di scendere verso il lago a mangiare qualcosa. Qui ti accorgi quanto le città e i paesini italiani siano stati progettati, nel corso del Novecento, per le auto e non per i pedoni. Il marciapiede sul quale mia moglie vorrebbe legittimamente salire per ragioni di sicurezza, è quasi più stretto della carozzina di mia figlia, compresso tra un muro e la fila di auto parcheggiate, con alberi che, ogni cinque metri, sbucano in mezzo all’asfalto, rendendone di fatto impossibile l’utilizzo. La vista sulle Isole Borromee che si gode dal lungolago è però stupenda e anche i vecchi hotel e le case si integrano con il paesaggio. Peccato per le “nuove” costruzioni degli anni ’70 e seguenti, uno scempio architettonico che, tristemente, non risparmia nessun angolo del Belpaese. Ma – mi chiedo per la millesima volta – perché non vengono ristrutturate le bellissime ville settecentesche in rovina – come quella di cui sotto riporto l’immagine (proprio all’incrocio tra la via che sale alla Stazione e C.so Umberto I) – invece che costruire casermoni di cemento inguardabili? E’una domanda retorica, di cui conosco già la risposta, ma questo non esonera l’ente pubblico dal non rendere più dispendiosa la costruzione ex novo piuttosto che la ristrutturazione dell’esistente. Un’ultima nota negativa mi rovina il gusto del paesaggio prima di partire e solleva un secondo interrogativo, non meno grave: perché in una località turistica affollata da visitatori di tutto il mondo non si servono (ovunque!) le specialità italiane del territorio e di stagione? Che tristezza quei piatti di pasta e carne surgelati e la macedonia con frutta sciroppata, proprio di fronte al lago… Mi era già successo a Capri.
Ritorniamo alla stazione e attendiamo il regionale, che arriva puntuale. Non avevamo però fatto i conti, anche qui, con le “barriere architettoniche”: la carrozzina non passa dalle sbarre all’ingresso del treno e gli scalini complicano tutto. Smontiamo di corsa la culla dalle ruote, aiutati dal solito sconosciuto pieno di senso civico, che intrattiene il bambino più grande, mentre mia moglie tiene la piccola e io lancio zaini e bagagli sul treno, che sta per partire. Il capotreno – che non ne può nulla di come vengono progettate le carrozze – viene a scusarsi e ci rivela un trucco per scendere senza dover smontare di nuovo tutto, fatto di inclinazioni e precisione millimetriche. Mezz’ora e siamo a Domodossola, da dove parte il Vigezzo Vision, il treno panoramico operato dalla Società Subalpina Imprese Ferroviarie.
La prenotazione è semplice, basta chiamare la biglietteria o inviare un e-mail all’indirizzo vigeinfo@tin.it. Io sono stato richiamato dopo pochi minuti e una signorina gentilissima ha completato la procedura con carta di credito, facendomi trovare i biglietti alla partenza. 46 euro per tutta la famiglia. Da quanto ho capito molti non prenotano e chi lo fa, come noi, anche con pochi giorni d’anticipo, ha diritto ai posti migliori: io e mio figlio ci troviamo seduti proprio a fianco della cabina del conduttore, con ampie vetrate che permettono di guardare il paesaggio davanti, sopra e di fianco. Mio figlio non ha più occhi. Mi viene da pensare che man mano che ti avvicini alla Svizzera tutto funzioni meglio. Non è vero, ma è il solito complesso di inferiorità italiano.
Il treno attraversa vallate, piccole stazioni che sembrano baite e paesini di villeggiatura montana. Le carrozze sono pulitissime e confortevoli, anche se non c’è molto spazio per i bagagli. Non tutti infatti vanno fino a Locarno, c’è chi sale e chi scende, molti la vivono come una gita in giornata. Arriviamo nella città svizzera mentre in Piazza Grande, la piazza centrale, stanno disallestendo il Festival del Film e tutti gli addobbi “leopardati” che lo accompagnano. Chissà, mi chiedo, se hanno proiettato qualche bel film su temi ambientali. Premi speciali dedicati non mi risulta che esistano, da quanto leggo sul programma abbandonato su una sedia. Scopro però, sotto i portici, un marchio di materiale da trekking che non conoscevo, la tedesca Jack Wolfskin, piuttosto “green”, che ha aperto a Locarno il suo primo negozio monomarca del Canton Ticino. Sapendo che nei giorni seguenti camminerò molto, compro un paio di calze in cotone organico, certificato Icea e AIAB e prodotto in Italia, dalla Alpes di Rossano Veneto. Daniel, il commesso, me le consegna in un sacchetto di carta certificata FSC Mixed Sources realizzato, con materiale in parte riciclato, dalla Interseroh. Bene, pian piano la green economy prende piede ovunque, lo capisci anche da questi dettagli, apparentemente insignificanti.
La città non mi fa impazzire e mi accorgo che anche gli svizzeri non si sono risparmiati nel consumo di suolo e nel costruire case, casette e condomini a destra e manca, fino in punta alla montagna che sovrasta il lago. E non sempre le (poche) ristrutturazioni di immobili storici sono impeccabili. Per pietà non citerò l’hotel dove abbiamo soggiornato, che è riuscito a sfregiare un palazzo ticinese del ’400 ricoprendo gli affreschi e la facciata in un modo semplicemente orrendo e kitsch. Il sito www.ascona-locarno.com è invece ricco di informazioni per chi volesse, più saggiamente, soggiornare nei numerosi agriturismi della zona.
Organizzo la partenza del giorno successivo per Interlaken, ma anche in questo caso le ferrovie non aiutano: dalle 4 alle 5 ore di viaggio, con cambi, passaggi in bus e qualche piccolo spostamento a piedi che, con due passeggini e i bagagli, diventerebbero troppo macchinosi. Scelgo di noleggiare un auto e ammetto, in questo caso, di non essermi pentito, perchè certi paesaggi li puoi attraversare solo in bici (se hai il fisico e comunque non con due bambini piccoli), con il bus postale (se i bambini non patiscono troppo le curve e i tornanti e hai pochi bagagli) o con l’auto. Sto parlando del Sustenpass, il magnifico passo a 2.224 metri al quale si arriva attraversando vallate in stile Heidi. L’attuale strada di valico fu costruita fra il 1938 e il 1945, motivata dallo sviluppo del turismo, da “strategie militari” (?) e dalla promozione economica della regione e, come si legge sul sito, “è stata eseguita con la massima cura affinché l’opera e il paesaggio divenissero un’unica cosa. Per questo, tutti i muri di sostegno sono rivestiti di pietre naturali e, per ottenere la massima attrattiva turistica, la strada è stata dotata del numero più elevato possibile di gallerie, passaggi nella roccia, ponti, piazzole panoramiche e persino di una cascata artificiale“. Peccato le decine (forse centinaia) di motociclisti che ti sfrecciano in continuazione a fianco, come se ammirare il paesaggio non li interessasse, ma dovessero vincere un fantomatico gran premio. Se rallentassero un po’ e alzassero gli occhi dalla strada si renderebbero conto di quanto spaventosamente i ghiacciai si stiano ritraendo. E forse ridurrebbero anche un po’gli inutili ”sgasi”.
Dopo tre ore di viaggio arriviamo a Interlaken, nota e affascinante cittadina tra i laghi Brienz e Thun. Il modo migliore per ammirarla è salire, con la funicolare, all’Harder Kulm (biglietto ridotto a 12 CHF con la Visitor’s Card), lo storico hotel a pagoda costruito sull’omonima montagna (paradiso del parapendio), dalla cui terrazza panoramica, inaugurata nel centenario del 2008, si possono vedere, in una sequenza impressionante, le vette mitiche dell’Eiger, del Mönch e dello Jungfrau. E purtroppo anche quel pugno nell’occhio che è lo JungfrauPark, una brutta copia dell’Epcot Center americano, che assomiglia più ad un centro commerciale che a un luogo di informazione e “scienza” e che, a mio parere, non vale i 36 franchi dell’ingresso.
Carissima per gli adulti (130 CHF con il Good Afternoon Ticket, da Grindelwald, circa 110 euro! Gratuita fino ai 6 anni), ma imperdibile, è invece la salita ai 3.454 metri della stazione ferroviaria più alta d’Europa, lo Jungfraujoch, con la linea di trenini inaugurata nel 1912, su progetto del visionario industriale svizzero Adolf Guyer-Zeller. Quest’anno, per il centenario, viene fornito a tutti i passeggeri, un finto passaporto – da timbrare in cima – con la storia di una delle linee ferroviarie più audaci al mondo, costata all’epoca 16 milioni di franchi e scavata in gran parte in galleria, nella roccia dell’Eiger, la temutissima montagna che oltre ai 69 morti per alpinismo, porta con sé anche la morte di 6 dei 100 operai (tutti italiani) che lavorarono alla costruzione dell’opera. Il panorama dalle vetrate delle stazioni intermedie, Eigerwand (la parete Nord) e Eismeer, è mozzafiato. Arrivati in punta, dentro la Sphinx, l’edificio che ospita anche l’osservatorio astronomico e la stazione meteorologica (una delle più importanti in Europa per gli studi ambientali e il rilevamento delle sostanze inquinanti sulla dorsale alpina), è inoltre possibile uscire sul “plateau” e ammirare il ghiacciaio dell’Aletsch che, pur in sofferenza, rimane il più lungo del continente. Impressiona vedere, a 3.500 metri, la neve che ti si scioglie sotto i piedi, mentre lo zero termico è catapultato sopra i 4.000 metri…
Trascorriamo 3 giorni in un bell’hotel un po’ fuori città, in mezzo ai campi e alle fattorie. L’auto però la dimentichiamo nel parcheggio perché il servizio di mezzi pubblici è comodo, efficientissimo e di una puntualità – veramente, questa volta – svizzera! Minuto spaccato e, con la carta del turista regalataci dall’albergo, totalmente gratuito per tutta la durata del soggiorno. La colazione dell’hotel è ricca, ma mi colpisce (deformazione professionale) l’ennesima nota dolente: perché devono servire in tavola il latte impacchettato della Emmi di Lucerna, quando a 500 metri dall’hotel c’è una grande fattoria che produce e vende latte fresco?? E perché le marmellate della Hero quando, tutto intorno è pieno di alberi da frutta? Stiamo parlando di un hotel da quasi 200 euro a notte! Almeno il pane è fatto in casa e anche la pasta fresca, cucinata dal cuoco, di origine italiana, con tanto di erbette del giardino.
Venerdì 17 agosto, contro ogni superstizione, decidiamo di tornare a casa e, dopo aver riconsegnato l’auto a Locarno (quand’è che si potranno noleggiare anche auto elettriche o a metano?), ci avviamo al molo dal quale partono le motonavi operate dalla Gestione Navigazione Laghi. La società è italiana e io scrivo, per prenotare l’aliscafo, all’indirizzo e-mail indicato sulla brochure ufficiale. Quando arrivo in biglietteria però della mia email non c’è traccia perché, mi dicono, avrei dovuto scrivere all’indirizzo svizzero (quale?) e comunque con qualche giorno d’anticipo. Accetto la mia responsabilità per il ritardo (ho scritto solo la sera prima), ma credo che se le due biglietterie si parlassero e facessero un semplice “Inoltra” delle e-mail (per farsi perdonare che nel 2012 non hanno il booking online!) i clienti sarebbero più soddisfatti. Tra gli spintoni incuranti di chi, rincretinito dall’euforia del “gruppo organizzato” con cappellini tutti uguali, non si accorge che abbiamo, nello zaino e in carrozzina, due bambini al seguito, ci mettiamo in fila, sotto il sole, ad attendere l’imbarco. Poi “aprono le gabbie” e tutti giù a fiondarsi per prendere il posto migliore, senza guardare in faccia nessuno. Mia moglie chiede se per caso c’è una corsia preferenziale per chi ha bambini piccoli e riceve un secco “no” di risposta. Vabbè, sopravviviamo alla calca e saliamo, senza fretta, sulla motonave “Verbania” che, quanto a comfort e pulizia è piuttosto lontana dagli standard del battello a vapore che solca il lago di Brienz. A onor del vero fa un viaggio più lungo e costa anche meno: 62,37 euro (al cambio di quella data) per due persone, contro gli 81,57 euro di Interlaken. Il tragitto però è molto piacevole e lo rifarei. Dopo aver superato Ascona e le belle Isole Brissago (che il sito di promozione turistica definisce addirittura “un’isola tropicale in mezzo al Lago Maggiore”) si rimane ipnotizzati dal vento sul viso e dal paesaggio che muta lentamente sulle sponde del Lago. Cannobio, Luino, Intra, Laveno, Baveno… La nave fa una specie di ping-pong tra il versante piemontese e quello lombardo, per poi arrivare a Stresa, dove scendiamo, e proseguire fino ad Arona. Arrivato al termine del mio “anello” mi rendo conto che, con pur con i limiti attuali, utilizzare i treni e i corsi d’acqua, fiumi e laghi, come alternativa di viaggio all’automobile è una scelta intelligente e sicuramente più rilassante, che, in qualche modo, ti “riconnette” con il territorio.
Andrea Gandiglio