Il sesto continente: Pennac porta in teatro il voyeurismo della distruzione ambientale
Un punto è bene chiarirlo subito: il sesto continente, purtroppo, non è una metafora. Sebbene l’inconfondibile stile ironico e surreale di Daniel Pennac possa far pensare a un’invenzione letteraria, l’immonda poltiglia galleggiante di plastica sminuzzata e rifiuti esiste davvero e fluttua a qualche metro di profondità, invisibile ai satelliti, nel nord del Pacifico, grande – si stima – all’incirca quanto il Canada. Lo ha scoperto per caso, alla fine degli anni ’90, Charles Moore, un milionario americano con la passione per la vela, che da allora si dedica a studiare e far conoscere i devastanti effetti del continente di plastica.
Alla vicenda di Moore, magnate del petrolio convertitosi alla causa ambientale, si ispira in parte l’inquietante commedia scritta da Pennac per la regista Lilo Baur e i suoi attori e coprodotta dal Theatre des Bouffes du Nord di Parigi e dal Teatro Stabile di Torino.
Su una scena disseminata di oggetti – che via via si trasformano, passano di mano in mano creando ambienti e situazioni, spariscono e ricompaiono viaggiando su fili lunghi come catene di montaggio – prende corpo la saga di una famiglia di industriali che, attraverso tre generazioni, ha costruito la propria fortuna sull’idea di pulizia. Dal giorno in cui il nonno, giovane operaio in una miniera di carbone, promise a se stesso un futuro di candore immacolato e cominciò a fabbricare sapone, la famiglia immaginata da Pennac si arricchisce producendo tutto ciò che serve a tenere separati, in ordine e puliti gli infiniti oggetti prodotti dalla civiltà: detersivi, scatole di cartone, carta da pacchi, “igienici” imballaggi di plastica, fino al redditizio business dello smaltimento dei rifiuti. Il nero dickensiano che fa capolino dai ricordi del vecchio patriarca viene riscattato e letteralmente mondato da una scalata al successo al motto di “Ripuliamo la Terra”; il caos dei primordi dell’era industriale viene trionfalmente sconfitto dall’ordine e dall’igiene. Almeno in apparenza… Basterebbe non farsi domande e lasciar dormire la coscienza, per rotolare inconsapevoli verso la rovina generata da questa estrema smania di pulizia. Ma ad un certo punto, per bocca del grillo parlante della commedia (la giovane Apemanta, figlia adottiva pescata, guarda caso, dall’immondizia), la domanda giusta arriva: dove va a finire lo sporco?.
È proprio attorno all’ambigua dialettica sporco-pulito che ruota l’intera pièce. «Quand’è che un oggetto comincia ad essere considerato sporco? – si chiede la regista – Nel momento in cui diventa inutile? Quando raggiunge i rifiuti? E quand’è che una persona o un’idea cessano di essere pulite?».
Abbiamo passato più di un secolo a lavarci dalla fuliggine della Rivoluzione Industriale, e ora che abbiamo le mani bianche-che-più-bianche-non-si-può, ci accorgiamo di quanto in realtà abbiamo insudiciato il pianeta e la nostra stessa coscienza. La gigantesca rimozione collettiva di cui siamo vittime e artefici si è materializzata all’improvviso con la scoperta del sesto continente: tutto lo sporco “rimosso”, in ogni senso, dalla nostra vita, va a finire lì. È curioso (ma pensandoci bene, neanche tanto) che l’idea di rimozione si accompagni contemporaneamente al concetto di pulizia e a quello di coscienza sporca…
La repentina percezione di un tale paradosso genera in Theo, il rampollo della dinastia, un cortocircuito che lo spinge all’azione. Da un giorno all’altro vorrebbe trasformare l’azienda di famiglia in una società modello impegnata nella ricerca ambientale, ma il sistema gli si rivolta contro e Theo si ritrova spogliato di tutto e abbandonato sul continente di plastica. È qui, meditando la sua shakespeariana vendetta, che gli giunge l’illuminazione per un nuovo assurdo, eppure geniale business: organizzare crociere attorno al sesto continente. «Noi non moriamo, perché ci guardiamo morire» è l’intuizione che lo scuote, come uno sghignazzo beffardo, mentre già langue impantanato tra plastiche e scarti.
Ed ecco il secondo nucleo del testo di Pennac, solo accennato, ma cruciale e bruciante: l’umanità vuole guardare la sua distruzione, perché così ha l’impressione di rinviarla. Un voyeurismo paralizzante e micidiale. È come se la tardiva, ma finalmente sopraggiunta consapevolezza del problema costituisse già, nella nostra percezione, la sua soluzione. Ma la strada fatta per arrivare a una presa di coscienza, anche se è costata fatica, non vale come azione. E crederlo – ci dice l’autore francese – sarebbe un inganno letale.
Giorgia Marino