Il Paradiso perduto (e ritrovato)
Prosegue, con le impressioni di viaggio di Andrea Gandiglio in Cornovaglia e Devon (Regno Unito), la nostra serie di affreschi per capire meglio come la sostenibilità ambientale viene vissuta ed esercitata nei principali Paesi del mondo.
Mentre le trattative politiche sul dopo-Copenhagen continuano a stagnare e l’Unione Europea sembra avere, nel suo complesso, abbandonato l’ambizione del 30% di riduzione unilterale delle emissioni al 2020, la Gran Bretagna – com’è abitudine nell’amorevole (o odiosa, a seconda dei punti di vista) mentalità dei suoi abitanti – prosegue per la propria strada.
Già nel 2008 il Governo Britannico di Sua Maestà aveva reso esecutivo il Climate Change Act, prima legge al mondo che rende obbligatorio (e non solo auspicabile), nel Regno Unito, un calo delle emissioni di almeno l’80% entro il 2050. Nel 2009 l’esecutivo ha poi varato il Low Carbon Transition Plan, un piano strategico che mira a ridurre, in modo permanente, l’impronta di carbonio del Paese ampliando, al contempo, le opportunità economiche e l’occupazione in un mercato “verde” che, già oggi, occupa 880.000 persone, per un volume di 106 miliardi di sterline.
L’avanguardia di questo nuovo modello di business sembra essersi radicata nelle verdi brughiere dell‘Inghilterra sud-occidentale, tra la Cornovaglia e il Devon, dove ci siamo recati per verificare quanto di questa green revolution si possa già toccare con mano e quanto resti ancora, in forma embrionale, tra gli impegni delle carte parlamentari.
La nostra prima tappa – ansioso obiettivo di recensione sin dalla partenza del tour - ci lascia, a dire il vero, piuttosto delusi. Dopo aver attraversato l’incantevole Exmoor National Park, al confine con la contea di Somerset, e percorso la costa fino a St.Ives, dove si inizia ad assaporare la suggestione della fine della Terra (Land’s End) a favore dell’Atlantico, arriviamo, nei pressi di St. Austell, all’agognato Eden Project, le faraoniche serre realizzate negli anni ’90 e inaugurate nel 2000 come parte del Millenium Project, l’iniziativa con cui il Regno Unito ha voluto celebrare “in maniera duratura” l’avvento del nuovo millennio.
Si tratta di una gigantesca ex cava di argilla a cielo aperto, profonda 60 metri e larga quanto 35 campi da calcio, recuperata attraverso un complesso intervento che ne ha rimodellato la superficie consentendo la costruzione di due biomi, ovvero due serre (le più grandi al mondo) che riproducono rispettivamente l’habitat della foresta pluviale (Rainforest Biome) e quello mediterraneo (Mediterranean Biome), interconnessi e circondati da strutture di passaggio in cui si trovano bar, ristoranti, un centro di accoglienza per i visitatori, negozi, un “palatenda” per il pattinaggio su ghiaccio (in inverno) e un centro per eventi e attività di formazione.
Raccontato così potrebbe sembrare più un misto tra un parco dei divertimenti e un avveniristico centro commerciale che un progetto per riavvicinare la gente alla natura – ma il problema è che ci riesce difficile raccontarlo diversamente. La differenza rispetto a un Disney World o Epcot Centre va infatti ricercata col lanternino nei pur lodevoli impianti per generare elettricità e recuperare il 43% delle acque piovane – destinati tuttavia ad alimentare una realtà artificiale che esige una quantità di acqua ed elettricità nettamente superiore a quella di un più istruttivo parco naturale e che, nel 2007, è costata al contribuente inglese 130 milioni di sterline. Nulla - pur senza fare i partigiani – che il più modesto ma efficace progetto del PAV di Torino debba invidiare. Vista la difficoltà e il costo di muoversi con i mezzi pubblici in Inghilterra (fuori da Londra) e un biglietto d’ingresso non proprio economico (16 sterline!), non ci sentiamo francamente di sostenere che l’Eden Project valga la visita.
Appena attraversato il Visitor Centre non crediamo infatti alle nostre orecchie: a dominare il panorama sonoro dell’avvallamento non sono – come potrebbe suggerire il nome del luogo – uccellini dal canto paradisiaco e foglie suonate dai forti venti cornovallesi, ma una pesante musica da discoteca che proviene dall’interno della pista di pattinaggio e il motore diesel di un trattore che scarrozza lungo i tornanti della cava i visitatori curiosi di scoprire la biodiversità vegetale della Cornovaglia, ricostruita sulle sponde del sito. A parte il fatto che il percorso si può tranquillamente percorrere a piedi, ma la domanda che sorge spontanea è: per scoprire la stupenda vegetazione della Cornovaglia non è meglio farsi una bella (e gratuita) passeggiata nei boschi locali?
Nell’ Editoriale 2010 abbiamo sostenuto la tesi che, per conquistare un pubblico più ampio alla causa ambientale, sia necessaria, oggi, una visione più “gioiosa” e meno punitiva (o privativa) della sostenibilità, ma non è questo il modello che intendiamo. Non si può pensare di educare i cittadini ad una maggiore sensibilità verso la natura (come l’Eden Project si propone esplicitamente di fare), privandoli del fascino ruvido, silenzioso e selvaggio, della natura stessa per assecondare, attraverso scorciatoie commerciali, i gusti e le abitudini radicate del “consumatore”.
Se volete farvi un’idea di come si possa invece adottare un atteggiamento positivo e conciliare divertimento e sostenibilità proseguite per Totnes, nel Devon, la prima transition town d’Inghilterra – dove abbiamo avuto l’impressione di ritrovare il paradiso perduto nel giardino dell’Eden (Project). Un paradiso certo meno faraonico e stereotipato, più terreno e a misura d’uomo, ma forse, proprio per questo, più desiderabile.
Le città di transizione sono sorte su iniziativa di gruppi spontanei che, animati dalla preoccupazione per i cambiamenti climatici e le conseguenze deleterie del cosiddetto picco petrolifero, operano conl’obiettivo di traghettare l’attuale modello economico e industriale verso un nuovo modello di sostenibilità, svincolato dalla dipendenza petrolifera e caratterizzato da un alto livello di resilienza, ovvero la capacità di un sistema di adattarsi, senza traumi, a nuove condizioni prodotte da eventi climatici, energetici ed economici anche disastrosi. Un modello cioè di saggia prevenzione.
Basta camminare per le graziose vie di Totnes per rendersi conto del significativo numero di ristoranti vegetariani, green cafè, negozi di bio-cosmesi ecc., che presuppongono una catena di produzione e distribuzione impostata su nuove basi. Il clima che si respira non è tuttavia quello da convento francescano e inginocchiamento sui ceci. Tutt’altro. Gli abitanti di Totnes (talvolta descritti dalle guide turistiche come stravaganti, o anche “ecochic”), sembrano vivere con positiva normalità, buon umore ed un certo orgoglio la transizione verso questo modello lungimirante, che fonde tradizione e innovazione.
Se doveste trovarvi da quelle parti affittate una bicicletta in paese e, attraversando la campagna, raggiungete sulla cima della collina la Sharpham Vineyard, una fattoria dove potrete gustare gli inconsueti vini del Devon (ebbene sì, coltivano la vite anche in Inghilterra!) e godere dello stupendo panorama sul fiume Dart. Al ritorno in città, per rifocillarvi, andate invece a cenare al Willow Vegetarian Garden Restaurant e, tra una birra organica e uno squisito curry di verdure biologiche capirete (nel caso aveste ancora dei dubbi) quanto si possa vivere bene in un mondo riconciliato con l’ambiente, senza rinunciare ai piaceri della vita.
Andrea Gandiglio
Informazioni utili: la Guida Lonely Planet Inghilterra (5°ed. italiana, Settembre 2009, EDT, 28,00 euro) contiene le utili sezioni: Inghilterra Ecosostenibile, Terra Madre (le comunità del cibo in Inghilterra affilliate a Slow Food) e il nuovo Indice Verde per i viaggi ecosostenibili.