“E il giardino creò l’uomo”. Come gli alberi conducono a noi stessi
“Nel grande deserto che è diventato il mondo degli uomini, non ci resta che il giardino!”. Lo spirito con cui Jorn De Precy, filosofo-giardiniere islandese, scrive nel 1912 E il giardino creò l’uomo (The Lost Garden), è riassunto benissimo in questa frase. Il libro, pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie, è curato da Marco Martella, storico dei giardini e fondatore a Parigi della rivista Jardins, sulla filosofia e la poetica del giardino, che lo ha trovato per caso in un mercatino delle pulci di Londra. Un po’ saggio e un po’ diario, il volume è un elogio del giardino come “territorio tra parentesi”, in cui l’uomo può ritrovare il tempo che in città scorre troppo veloce, e forse comprendere anche il senso delle cose.
Nel libro, l’autore raccoglie, uniti a consigli su come creare un giardino selvatico e adatto al luogo in cui si trova, riflessioni sul rapporto tra l’uomo e la natura e sull’importanza delle piante per raggiungere un nuovo equilibrio con l’ambiente nell’era della modernità. Per dirla con de Précy, che quelle idee le applicò nel suo giardino selvatico di Greystone, nella campagna inglese dell’Oxfordshire, è “una raccolta di liberi pensieri su tutto ciò che, nell’esperienza del giardino, ci chiama in causa come esseri umani”.
I temi toccati sorprendono per la loro grande attualità, a partire da quello del Genius loci, cioè lo spirito di un luogo. L’unica regola per chi voglia creare e curare un giardino, dice de Précy, è il “rispetto per il luogo in cui operiamo” e che “ci parla”: “Quando si crea o si mantiene un giardino bisogna sempre fare atto di modestia. Il luogo ha origini lontane, più lontane delle nostre. Possiede una storia in cui abbiamo il dovere di entrare in punta di piedi”. Ancora, “bisogna imparare l’arte di guardare e quella della pazienza, che abbiamo da tempo disimparato; ma anche, anzi soprattutto, quella di ascoltare”. E allora, a un certo giardinaggio di oggi, molto “interventista” sulla terra, si sostituisce quello del “giardino selvatico”, lasciato ai propri ritmi. Giardinieri che si mantengono in penombra, a cui l’autore consegna questo imperativo: “Fate il meno possibile, lasciate alla natura il grosso del lavoro, ritiratevi quanto potete dal campo d’azione”.
Con l’avvento della modernità, scrive malinconico de Precy, “ci siamo allontanati, forse irrimediabilmente, dal mondo naturale”. Ma è proprio attraverso il giardino che questo divario può essere colmato: è con quella stessa umiltà del giardiniere che possiamo “modificare radicalmente il nostro rapporto con il vivente, fino a considerare l’intero pianeta come un vasto giardino”. L’insegnamento del giardino sta proprio qui: “Un’umanità finalmente tranquilla può, se lo vuole, vivere in questo grande spazio che è la terra, prendendosi cura della vita”.
Il giardino diventa allora, e questa è forse l’idea più suggestiva del libro, una forma di resistenza, disobbedienza, ribellione ai ritmi e ai modi di vita imposti dalla città moderna. Nei giardini – di cui il verde urbano resta solo un surrogato un po’ triste – l’uomo può riconquistare il senso delle cose e lo scorrere naturale del tempo, di cui i ritmi quotidiani lo hanno privato. “Ci sono luoghi che sembrano resistere meglio a questa distruzione lenta e apparentemente inevitabile”, scrive de Precy alla fine del secondo capitolo, e continua: “Luoghi che riescono a preservare la propria anima e che la stupidità della civiltà non riesce a edulcorare facilmente. In questi luoghi l’esperienza della bellezza, del mistero vivente dell’essere è ancora accessibile ai comuni mortali. Naturalmente, sto parlando dei giardini”.
Marco Martella, curatore autore del libro, escogita un meccanismo narrativo molto efficace: l’espediente del volumetto perduto e ritrovato viene svelato solo alla fine da una oscura Nota dell’Editore, che lascia comunque intatto gran parte del mistero che avvolge il testo. “Per creare il personaggio mi sono ispirato (oltre, naturalmente, a me stesso, al mio modo di vedere il giardino, ai giardini che ho conosciuto o in cui ho lavorato) a diverse figure dell’Inghilterra vittoriana”, spiega Martella a Greenews. Ma, indipendentemente dall’esistenza o meno di de Precy, “E il giardino creò l’uomo” ha tutte le carte in regola per diventare un piccolo manifesto di poeti-giardinieri, coltivatori di orti urbani e piante sul balcone, alla ricerca, in mezzo alla città, di quel “dialogo ininterrotto con la terra” che è il giardinaggio.
Veronica Ulivieri