Ikaros: in volo verso il Sole senza bruciarsi le ali
Narra la leggenda che il re Minosse di Creta chiese a Dedalo di costruire un labirinto per nascondervi il Minotauro, la creatura con il corpo di uomo e la testa di toro che avrebbe dato – letteralmente – filo da torcere a Teseo. Perché il segreto del labirinto non potesse essere svelato, il crudele Minosse vi fece rinchiudere anche il costruttore e suo figlio Icaro; l’abile Dedalo, tuttavia, costruì delle forti ali per sé e per suo figlio, le attaccò ai corpi con della cera e i due riuscirono a scappare. Mentre si libravano nel cielo, però, incurante degli avvertimenti paterni Icaro si avvicinò al Sole più di quanto avrebbe dovuto: il calore fece sciogliere la cera, le ali si bruciarono e il fanciullo cadde nel mare, dove morì.
La navicella IKAROS si ispira al mito greco, invertendone però le sorti: si tratta infatti di una navicella spaziale la cui propulsione è data dalla luce del sole, “raccolta” da una grande vela quadrata la cui diagonale misura 20 metri. L’Interplanetary Kite-craft Accelerated by Radiation Of the Sun (letteralmente: aquilone interplanetario accelerato dalla radiazione solare) sarà lanciata il prossimo 18 maggio dalla base spaziale di Tanegashima, il più grande complesso spaziale di tutto il Giappone – noto anche per essere uno dei più belli al mondo.
La grande novità di IKAROS consiste nel fatto che è alimentato da una cosiddetta vela solare, senza dunque richiedere l’uso di carburanti: un vantaggio ambientale, sicuramente, e anche un aumento dell’efficienza, dal momento che solitamente le navicelle devono essere equipaggiate con abbastanza carburante per il viaggio di andata e il viaggio di ritorno – con conseguente aumento del carico complessivo e relativa diminuzione della velocità potenzialmente raggiungibile.
La tecnologia di IKAROS è relativamente semplice da comprendere: le vele solari sfruttano la pressione di radiazione, ossia la pressione esercitata dalla radiazione elettromagnetica (luce visibile, ma anche tutto il resto dello spettro) proveniente dalla nostra Stella; si tratta di una pressione piuttosto bassa – sulla Terra (o, meglio, fuori dall’atmosfera terrestre ma a quella data distanza dal Sole) la pressione di radiazione è pari a circa 10-5 Pascal (ossia un decimillesimo di Pascal), e considerato che la pressione al livello del mare è di 100.000 Pascal… gli ordini di grandezza di differenza sono davvero notevoli!
Ciò nonostante, la pressione di radiazione è sufficiente, secondo la teoria, per alimentare il movimento della vela di IKAROS nel suo viaggio alla volta di Venere. La membrana, come mostrato dall’immagine, è spessa soltanto 0.0075 mm ed è fatta di poliimmide, un polimero “ad alta prestazione” in quanto offre elevate prestazioni in termini di resistenza all’usura, all’attrito e alle alte temperature - benché quest’ultima caratteristica non sia di grande utilità nello spazio interplanetario, dove la temperatura media è intorno a -200 gradi centigradi… Si tratta comunque di un materiale innovativo e resistente, completato dalla presenza di una pellicola di cellule fotovoltaiche “spessa” soltanto 25 milionesimi di metro.
La storia delle vele solari ha radici piuttosto lontane nel tempo: secondo alcune fonti l’idea venne proposta per la prima volta addirittura da Giovanni Keplero, l’astronomo tedesco che nel diciassettesimo secolo scoprì e formalizzò le leggi che regolano il moto dei pianeti intorno al Sole. I primi esperimenti “concreti”, tuttavia, risalgono all’incirca agli anni ’90 del ventesimo secolo, e fino a oggi nessuna vela solare è ancora stata utilizzata con successo nello spazio come sistema di propulsione primario, come succederà invece nel caso di IKAROS. Dopo alcuni tentativi di alimentazione “mista” – in parte con usuali carburanti, in parte a vele solari – il primo esperimento “concreto” fu quello di Cosmos 1.
Un progetto della Planetary Society e di Cosmos Studios, Cosmos 1 non soltanto fu il primo veicolo spaziale ad alimentazione con vele solari a essere costruito e a essere lanciato nello spazio, ma fu anche (o meglio, come vedremo, sarebbe stata) la prima missione spaziale con finanziamenti interamente privati. Costruita in Russia, la navicella fu lanciata come da programmi il 21 giugno 2005 dal sottomarino russo Borisoglebesk, ubicato nel mare di Barens con il supporto di un razzo Volna; sfortunatamente, tuttavia, un difetto tecnico del Volna impedì alla navicella di entrare in orbita, provocando il (totale) fallimento dell’operazione.
C’è da sperare pertanto che l’impresa di IKAROS vada a buon fine, perché la possibilità di volare nello spazio utilizzando soltanto – o quasi – la spinta della luce solare sarebbe, fuor di dubbio, una vera e propria rivoluzione nel campo aerospaziale. Il tragitto che IKAROS dovrà compiere, per il momento, non è di particolare importanza; lanciato dalla base di Tanegashima sfruttando un razzo H-IIA, dovrebbe separarsi dal vettore e cominciare a roteare con una velocità pari a 20 rivoluzioni al minuto, cominciando a generare potenza solare grazie alla pellicola di cellule fotovoltaiche entro qualche settimana.
Nel caso in cui tutto questo si verifichi la missione sarà considerata un successo al livello di base. Se poi, con il trascorrere del tempo, sarà possibile mettere in atto la navigazione con la vela solare vera e propria durante il viaggio in direzione di Venere, la missione avrà raggiunto il successo completo - come auspicano ovviamente i coordinatori del progetto.
In caso di successo è prevista una seconda missione verso la fine di quest’anno; la vela solare sarà più grande, con un diametro (o una diagonale, nel caso di una vela quadrata) di 50 metri e un motore integrato a propulsione ionica; le destinazioni potrebbero essere Giove e gli asteroidi troiani.
Quel che è certo, tra le implicazioni indirette e non collegate al successo della missione, è che la tecnologia sviluppata da JAXA, l’agenzia spaziale giapponese, potrà abbattere significativamente i costi nella produzione di cellule fotovoltaiche – che come è noto sono un fattore chiave nella lotta contro i cambiamenti climatici.
Eva Filoramo