Vini e cibi “liberi”. Dalla semantica e dalle certificazioni
“Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile”, scriveva Italo Calvino nella terza delle Lezioni Americane, quella dedicata all’Esattezza. Il fenomeno, se è vero che ha, ormai, tristemente pervaso ogni ambito sociale e culturale, è particolarmente acuto quando si parla di cibo. E del marketing per venderlo.
La tendenza pare essersi aggravata negli ultimi tempi, di pari passo con l’aumento della sensibilità del consumatore verso ciò che gli viene proposto nel piatto e nel bicchiere. E la conseguente registrazione di questa sensibilità nelle ricerche di mercato. Mentre, cioè, sempre più consumatori si chiedono da dove vengano gli alimenti che mettono in tavola ogni giorno, come siano stati prodotti, con quale impatto ambientale e da chi, il campo si è improvvisamente affollato di espressioni vaghe e sapientemente ammiccanti. Parole prive di un contenuto chiaro e ben definito, che strizzano l’occhio ai consumatori di quella fascia “mediana” che vorrebbe ma non sa ancora distinguere.
Un fenomeno di marketing – più che di sciatteria linguistica – che puzza dunque di doloso. Perché, in realtà, se si volesse veramente e inequivocabilmente caratterizzare una produzione alimentare dall’impatto ambientale praticamente nullo, che non faccia ricorso a sostanze chimiche di sintesi (come solamente possono evidenziare le analisi residuali e multi-residuali), la parola esiste già ed è semplice: “biologico”. Ma il suo utilizzo è vincolato al rispetto di una precisa normativa europea (recepita dalla legislazione nazionale) e al controllo da parte di enti certificatori terzi. Ecco forse perché, “biologico” è una parola impegnativa (nel senso letterale), che non piace a tutti. Un po’ come la favola della volpe e l’uva: non ho i requisiti di legge e dunque mi riesce più facile dire che il biologico “è troppo burocratico”, o che “la certificazione costa troppo, ma io bio lo sono da sempre perché non uso niente…”, oppure – gran cavallo di battaglia dei furbo-scettici – che: “non puoi fidarti di quegli enti di certificazione!”.
Eh, certo, meglio fidarsi invece dell’abile commerciante, che non risparmia parole come “sostenibile”, “naturale”, “pulito”, “vero”, per traghettare il consumatore in quel dorato (e vaghissimo) mondo dei sogni del marketing più scaltro, dove avviene “l’intortamento”. Coldiretti, riferendosi ai mercati di Campagna Amica, dichiara che si tratta di “un modello sostenibile, responsabile, consapevole”. Ma mentre si sottolinea che le aziende “da sempre tutelano il paesaggio, recuperano varietà e razze in via d’estinzione conservando così il patrimonio di biodiversità del nostro paese”, non si fa nessun accenno all’uso di fitofarmaci e pesticidi, né si cita il biologico. Che, anche nelle recenti proposte degli Stati Generali della Green Economy (a cui Federbio non è stata invitata), lascia il posto a un più generico “filiere di qualità ecologica“, grazie alla formulazione suggerita dalla triade Confagricoltura-CIA-Coldiretti e accettata di buon grado da una distratta AIAB (l’Associazione Italiana Agricoltura Biologica), che di quei produttori dovrebbe tutelare gli interessi. Anche da Slow Food, a dire il vero, si attende ancora (se mai ci sarà) una presa di posizione netta sul fatto che, ad oggi, l’agricoltura biologica e biodinamica è l’unica forma certa (e certificata) di agricoltura sostenibile dal punto di vista ambientale. “Buono, pulito e giusto” è una formula che ha avuto, nei decenni passati, un enorme valore di coinvolgimento e sensibilizzazione del grande pubblico, ma oggi dall’associazione di Petrini ci si aspetterebbe di più. Così come una modesta proposta sarebbe quella di affiancare, alla distinzione su base meramente geografica degli espositori al Salone del Gusto, una più evidente sezione dedicata ai produttori biologici certificati.
“C’è chi mal sopporta il fatto di assoggettarsi alle procedure di controllo, e si inventa altre regole e altre diciture per evitare il disciplinare europeo e il sistema di regole esistente che, pur essendo perfettibile, sta funzionando”, commenta Ignazio Garau, un passato in Aiab e oggi direttore dell’associazione Città del Bio. Ma risulta difficile da comprendere anche la recente operazione di comunicazione di uno storico marchio del biologico, come Alce Nero, che ha iniziato a parlare di “cibo vero” nel titolo di un libro, per poi trasformarlo in un concetto di marketing, ampiamente propagandato proprio durante l’ultima edizione del Salone del Gusto torinese. Come se vero volesse dire qualcosa di preciso. Ma soprattutto, viene da chiedersi, perché mai un marchio che può vantare tutti i propri prodotti certificati biologici dovrebbe creare questo genere di confusione nel pubblico, offrendo involontariamente “una sponda” proprio a chi biologico non lo è?
Quando si parla di vino, l’utilizzo di parole vaghe e ammiccanti è poi ancora più evidente. Il “vino biologico” è regolato, da febbraio scorso, da un nuovo disciplinare europeo, prima limitato solo alle uve “provenienti da agricoltura biologica” e ora esteso anche ai processi di vinificazione. Ma in parallelo si diffonde sempre di più la tendenza a parlare di “vini naturali”. I produttori del consorzio Vini Veri, che ogni anno organizza l’evento parallelo al Vinitaly, dedicato ai “vini secondo natura”, dicono di non essere biologici o biodinamici “perché sappiamo che purtroppo le regole possono essere cavalcate dalle mode, (…) che nulla è più facile che imporre regole per poi violarle. Le grandi ricchezze così nascono. Vivere sull’ingenuità degli altri è facile, lo hanno fatto anche con noi quando ci dicevano che certe compromissioni con la chimica dell’industria portavano a risultati veloci e non ad un impoverimento della terra e delle nostre menti”. Ingenuità però – non ce ne vogliano i produttori del consorzio – di cui è ancora più facile abusare se ci si sottrae a ogni regola e si rifiutano i controlli.
Infine lui, l’infallibile “mercante di utopie“. Il patron di Eataly Oscar Farinetti, l’uomo della grande distribuzione traslata nell’immaginario slowfoodiano, che ha dato vita a una nuova creatura sulla quale c’è da aspettarsi che investirà molte risorse (e pagine di giornale), il “Vino Libero”: “libero dagli erbicidi, dai concimi chimici, dai troppi solfiti”. Ma anche, ribatte ironicamente Garau, “libero dai controlli e da garanzie per i consumatori”. Il problema, dunque, sembra essere: quanto è veramente “libero” il vino Libero? “Ovvero – chiede Garau – di quanto si è ridotto l’uso di erbicidi e di pesticidi in vigna e quali sono le sostanze che vengono usate in cantina? Bisogna infatti ricordare che nel processo di vinificazione delle uve sono ammessi, tollerati – a volte addirittura consigliati – fino a 300 prodotti artificiali per aiutare la natura! Parlare di vino libero rischia di essere la strada per bypassare la normativa e i controlli dell’agricoltura biologica, senza offrire garanzie certe ai consumatori”.
La stessa azienda Fontanafredda, che, dopo l’acquisto dal Monte dei Paschi di Siena, fa capo a Farinetti e al socio Luca Baffigo Filangeri, “viene definita ‘riserva bio‘, ma in realtà non è certificata biologica. Il proprietario di Eataly dice pubblicamente di non sapere cosa sia l’agricoltura biologica, ma nei suoi punti vendita il bio c’è e si dovrebbe spiegare, dunque, che cos’è!”, continua Garau, che lancia un appello costruttivo a Farinetti: “Promuova una comunicazione chiara ed eviti i messaggi ambigui. Eataly, che viene proposto come un saper-mercato, organizzi incontri di informazione e degustazione dei prodotti biologici per i consumatori. Noi proponiamo un confronto veramente libero sulla qualità del cibo e ci rendiamo disponibili a collaborare”.
Andrea Gandiglio e Veronica Ulivieri
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