Emilia Romagna: buone pratiche per la gestione delle cave
Sono quasi trecento le cave attive sul territorio emiliano-romagnolo: il catasto delle attività estrattive registra a fine 2009 un trend in calo, sia di scavi che di quantità di materiali estratti, per il 63% ghiaia e sabbia alluvionale. Ma si tratta comunque di numeri importanti. “Nel mandato del presidente Errani è prevista l’approvazione di una legge sulla sicurezza del territorio – dichiara Paola Gazzolo, assessore regionale alla Sicurezza territoriale – ed anche una revisione della normativa sulle attività estrattive, che pure ha dato risultati positivi”.
In effetti la legge regionale 17/1991 consente l’esercizio dell’attività estrattiva solo nelle aree previste dai Piani infraregionali, e solo tramite autorizzazione comunale a seguito di un’istruttoria tecnica. L’impresa che chiede l’autorizzazione deve avere precisi requisiti imprenditoriali, tecnici ed organizzativi, tra cui la disponibilità dei terreni. La risoluzione presentata dai consiglieri Naldi, Monari e Sconciaforni impegna la Regione ad aggiornare le tariffe degli “oneri di cava”, pari a un importo medio di 0,57 euro al metro cubo – ma variabile per tipo di materiale, fino alle pregiate pietre ornamentali da 3,50 euro al mq -. La nuova tariffa avrà come riferimento medio 2 euro al metro cubo.
L’atto d’indirizzo, approvato a maggioranza il 30 marzo scorso, prevede inoltre di “destinare i maggiori introiti così ottenuti al finanziamento delle politiche regionali di tutela dell’ambiente e di salvaguardia del territorio”. Gli oneri di cava dipendono da cosa e quanto è stato estratto: per esempio, per uno scavo di 120mila metri cubi di ghiaia, in Emilia, si pagano al comune € 68.400.
“Bene la legge, ma occorre tener alta la guardia con controlli rigorosi” mette le mani avanti Maurizio Maurizzi, segretario della Fillea Cgil di Bologna, che di scavi e cantieri ne ha visti tanti – tra gli ultimi, quello del nodo bolognese dell’Alta velocità. “La nostra legislazione è avanzata – spiega – ma oggi le imprese si chiedono perchè scavare qui, se basta scavalcare i confini regionali per avere condizioni diverse. E chi ha un cantiere a Piacenza fa presto ad andare in Lombardia”. La crisi economica non ha risparmiato infatti il settore edilizio/infrastrutturale, strettamente collegato al comparto estrattivo, e ne ha accentuato la trasformazione: sono diminuite le tante ditte di livello artigianale e locale, lasciando il campo a realtà aziendali strutturate e complesse, operanti su tutto il territorio nazionale. In mancanza di misure coordinate tra le regioni, il regime adottato in Emilia-Romagna potrebbe allontanare molte imprese. Il rischio adombrato dalla Fillea è quello d’insediamento delle “ecomafie” e delle cave trasformate in discariche. “La soluzione è mantenere il controllo del territorio e conoscere le imprese che vi operano” conclude Maurizzi.
“I controlli ci sono – assicura Emanuele Burgin, Assessore Provinciale all’Ambiente – e sono svolti dall’Agenzia Regionale Arpa, da Polizia municipale e provinciale, e dalle Ausl. Nei sopralluoghi si verificano qualità delle acque, emissioni in atmosfera, carichi e scarichi dichiarati dai camion. Non ci sono cave diventate discariche, per esempio, nel nostro territorio. La situazione è sotto controllo grazie a una pianificazione decennale a livello provinciale ed al raccordo con i piani urbanistici dei singoli comuni”. L’ultimo piano per le attività estrattive (Piae) del bolognese è del 2002, ed è in vigore fino al prossimo anno: sulla base dei dati raccolti nel quadro conoscitivo del territorio, prevede le esigenze di costruzioni e scavi, definendo le quote possibili per ogni comune.
Ogni Ente locale, rifacendosi a tali quantità, impone nei singoli progetti la previsione della sistemazione finale, in genere il “ritombamento” della cava. “Questo sistema di pianificazione comprende il piano di ripristino dei luoghi – spiega Burgin. – In qualche caso, come a Bazzano, per esigenze idrauliche, una cava è diventata un invaso di recupero di acque piovane. Ma di solito l’impresa che ha scavato ritomba il buco, riportandolo ad area verde. Vicino all’aeroporto di Bologna, in zona Birra, una cava è stata riempita con materiali di scavo della variante di valico dell’Appennino. A San Lazzaro, alle porte di Bologna, cave di venti anni fa sono oggi campi coltivati. Certo, non c’è più argilla sotto”. Regola fondamentale, specifica l’assessore, è che la destinazione urbanistica, prevista nei piani regolatori, non cambia: un sito agricolo ritorna tale dopo lo scavo, non può diventare edificabile. Caso diverso ma interessante è invece il polo estrattivo di San Niccolò: sul fondo ripianato della cava sarà installato un impianto fotovoltaico.
Un quadro molto più critico è tracciato invece da Luigi Rambelli, dirigente di Legambiente: “A monte e a valle della via Emilia è tutta una groviera di scavi. E’ significativo che gli ultimi studi di Nomisma registrino una caduta del settore immobiliare: c’è un eccesso di offerta. E i piani regolatori di tutta la regione prevedono si possa costruire ancora. Il meccanismo della legge regionale è formalmente ineccepibile, ma ci sono numeri che non tornano, e il commercio di materiali inerti è disastroso per il danno che reca al territorio”.
Rambelli denuncia, ad esempio, la cementificazione della Riviera romagnola, con oltre centomila “seconde case”, 72 km di costa costruiti e soli 8 km scoperti: praticamente un unico muro sul mare. “E poi, anche se l’impresa paga un indennizzo per scavare, bisogna valutare la sua reale congruità. E’ difficile parlare di vero ripristino. Al massimo si recupera l’area come zona umida o ad uso sportivo – ragiona l’ambientalista – che è più un meccanismo di mitigazione che un ripristino”. Rambelli punta il dito contro le strutture tecniche preposte alla valutazione dell’impatto ambientale: “In qualche caso, hanno agevolato escavazioni aberranti, come nella zona collinare tra Maranello e Vignola, vicino Modena, zona di produzione delle ceramiche. Lì sono insorti anche i cittadini, tra cui lo scrittore Valerio Massimo Manfredi, promuovendo comitati contro gli scavi”. Ultima stoccata dell’associazione ambientalista: “E’ irrealistico tener dietro alle ore di scavo e alle quantità. E’ impossibile controllare davvero quanto si scava”. E l’allarme è soprattutto per l’alveo del Po. La proposta dell’associazione è un contingentamento degli scavi e un meccanismo di recupero dei materiali delle demolizioni, così da evitare nuove cave.
C. G.
Al delicato tema delle concessioni di estrazione è dedicata l’inchiesta di Bernardo Iovene “La banda del buco“, nella puntata di Report del 3 aprile 2011: