Osservatorio Nimby: ovvero il rischio di fraintendere l’idea di sviluppo
“La preoccupazione per l’impatto ambientale non rappresenta più la prima ragione alla base delle contestazioni contro opere in costruzione o ancora in progetto“, è una delle osservazioni emerse dai nuovi dati – relativi al 2013 – dell’Osservatorio Media Permanente Nimby Forum, il database nazionale che dal 2004 monitora “lo stato dell’arte ” di tutte le situazioni di conflitto provocate da insediamenti industriali, privati o di pubblica utilità. Una risultanza, quella sulla minore apprensione per le sorti dell’ambiente in cui viviamo (e da cui dipende anche la nostra stessa salute) che non è stata elaborata minimamente nel corso della presentazione di questa IX edizione dell’Osservatorio, “Sblocca Italia: ultima chiamata”, avvenuta mercoledì 9 luglio, nella Capitale, all’Hotel Nazionale in piazza Montecitorio.
Eppure, se è vero che “l’incidenza delle proteste motivate dalla preoccupazione per le sorti dell’ambiente, passerebbe dal 37% del 2012 al 20,6% del 2013“, e che al primo posto, come spiega Alessandro Beulcke, Presidente di Aris, l’associazione che promuove l’Osservatorio Nimby Forum, “ci sarebbero i timori per la qualità della vita, con un 21% a cui seguono le opposizioni per carenze procedurali e di coinvolgimento (17,5%) e la paura per la salute pubblica (14,8%)”, sarebbe bastato trarre alcune doverose conseguenze: cos’altro non sono, infatti, il timore per la salute pubblica e quello per la qualità della vita se non il modo in cui gli intervistati “danno corpo” alla generica preoccupazione per l’impatto ambientale?
E invece, il dato principale da cui il dibattito dell’Osservatorio ha preso il via – la flessione del 5%, registrata nelle opere contestate (pari a 336 casi nel 2013 rispetto ai 354 del 2012) per via dei minori investimenti (secondo il Censis dall’inizio della crisi, nel 2007, gli investimenti diretti in Italia sono scesi del 58%) – ha rischiato di essere l’unica chiave interpretativa del fenomeno Nimby in Italia: come se tutti i comitati di cittadini – spontanei o meno, politicizzati o meno - nati sul territorio in segno di protesta a questa o a quell’opera, fossero solo dannose palle al piede di cui liberarsi, per far ripartire gli investimenti.
“Per sbloccare l’Italia – ha commentato Beulcke – visto che di industria si campa, non possiamo arrenderci al comitatismo”. Un ragionamento, se vogliamo, anche carico di buon senso: senza investimenti si muore, il Paese non cresce e rischiamo di uscire da questa crisi, quando sarà troppo tardi. Certamente, tuttavia, sarebbe stato necessario tematizzare l’altra questione sul tappeto: quali investimenti ci possono garantire una crescita duratura e sostenibile? Quali risorse impiegare in maniera efficiente, per attrarre quelle imprese che operano in settori a basso impatto ambientale (sì, quelli stessi che i cittadini non hanno ragione di temere!) e che possono offrire risposte durature e sostenibili a questa crisi?
Chi conosce bene il fenomeno “Not in my backyard” (fino all’eccesso della sindrome BANANA - Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything) sono i rappresentanti di imprese come Sogin, società di Stato incaricata del decommissioning degli impianti nucleari e della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, e TAP – progetto per la realizzazione di un gasdotto che trasporterà gas naturale dalla regione del Mar Caspio in Europa – che hanno animato la prima sessione del dibattito. Tutte imprese che operano nel settore della produzione energetica, in testa alla classifica dei settori maggiormente colpiti dalla sindrome Nimby (il 63,4% del totale). In realtà in questa classifica rientra anche Falck Renewables, produttore di energia da fonte eolica, solare, da biomasse, che paga l’avversione di una parte della popolazione anche alle fonti rinnovabili, quando queste vanno oltre la dimensione “casalinga”, attratte da un gigantismo che, in sostanza, significa maggiore redditività dell’impianto.
L’eterna questione del deposito di rifiuti radioattivi, sollevata da Riccardo Casale, AD di Sogin, l’attesa per la pubblicazione dei criteri da parte dell’ISPRA - finalmente, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha emesso, lo scorso 4 giugno, i criteri di localizzazione del Deposito Nazionale per i rifiuti radioattivi – il nodo della localizzazione – nodo valido sia per il Deposito Unico Nazionale sia per il gasdotto TAP – la difficoltà di interlocuzione con le istituzioni locali denunciata dal Country Manager di TAP, Giampaolo Russo, i costi che nel tempo si moltiplicano: tutti temi che fanno emergere, dal punto di vista delle imprese, una difficoltà enorme a investire in un Paese dove la burocrazia è l’unica certezza incrollabile. Ragione per cui, spiega seraficamente l’amministratore delegato di Falck Renewables, Piero Manzoni, “abbiamo smesso di investire qui: il Nimby effect c’è dappertutto ma la differenza”, spiega, “sta nel modo in cui viene gestito: nei paesi anglosassoni, esiste un approccio più pragmatico, il consenso è creato prima e questo fa sì che siano gli stessi Comuni a investire in un’opera”.
I temi della trasparenza e del dibattito pubblico, quello della creazione del consenso prima che un’opera sia progettata su un dato territorio, la certezza del diritto e la partecipazione civica, rendono il quadro iniziale un po’ più articolato. L’interrogativo con cui si apre la seconda sessione del dibattito è: come comunicano le imprese?
A questa domanda, il direttore di Panorama, Giorgio Mulè, torna sulla “fotografia” di un Paese fermo, bloccato, senza futuro: “Russo (TAP) è un santo”, sostiene, “e il malcontento che sta montando in Puglia per il progetto del gasdotto poggia sul nulla”.
È molto probabile, come afferma lo stesso Country Manager di TAP, “che la gente non sappia quanti gasdotti ci sono in Italia” (anche se è irrilevante: le contestazioni sono sempre radicate in un dato territorio e non si curano affatto di quanto accade altrove); è abbastanza certo, inoltre, che il nostro sia “un Paese che soffre una bassa cultura scientifica” (ma più di altri? qualcuno l’ha mai misurata, forse?) e, ancora: è verosimile che chi “si dice contrario a un progetto o a un’opera quasi mai riesce a indicare motivazioni razionali e fondate”.
Insomma, tutte le argomentazioni messe in campo, sembrano aver espunto – non solo dall’orizzonte tematico, ma anche da quello reale – il tema della sostenibilità: un investimento sostenibile per un dato territorio, lo è dal punto di vista ambientale ed economico; lo è un’opera bella, che abbia un basso impatto per l’ambiente che la ospita, lo è se è il frutto di un percorso condiviso con la cittadinanza, e se ha effetti positivi, diretti e indiretti, sull’economia locale. Quello che invece emerge, è il quadro di un Paese “autistico”, in cui le istituzioni sembrano esistere solo per ostacolare le imprese con leggi e leggine incomprensibili e contraddittorie; le imprese, a loro volta, hanno come unica possibilità, quella di imboccare scorciatoie spesso fuori legge pur di salvarsi; e dove i cittadini manifestano il proprio malcontento come unica arma di difesa del territorio che abitano.
Ma siamo sicuri che l’unica realtà possibile sia questa? Non tutti concordano, nemmeno al tavolo del Forum. “Manca un progetto-Paese”, interviene Gianluca Comin (ex capo Comunicazione di Enel, ora docente di Communication Strategy alla LUISS), “non è vero che le opere sono bloccate dalle associazioni ambientaliste: quando un’opera si ferma e resta incompiuta, spesso è perché lo stesso committente a non volerla completare”, dice. “Poi ci sono altre variabili: una politica instabile e una forte burocrazia non aiutano: ma è del tutto inutile che le imprese facciano preparare i progetti dai propri ingegneri, ancora prima di aver avviato un vero dibattito pubblico, dove per vero si intende che occorre recepire le motivazioni che emergono da un processo di partecipazione civica e non fare finta di farlo e procedere come se nulla fosse”. E conclude: “La trasparenza è l’unica arma in grado di combattere e vincere un antagonismo strumentale”. Sagge parole. Semplicemente perché temiamo principalmente tutto ciò che non conosciamo. E abbiamo diritto di credere che potrebbe farci male.
Ilaria Donatio