No, we couldn’t
E’passato poco più di un anno dall’elezione a Presidente degli Stati Uniti di Barack Obama, l’uomo del cambiamento e della speranza, il cui motto “Yes, we can” ha fatto il giro del mondo. Eppure a Copenhagen anche lui ha dovuto indirettamente ammettere di non avercela fatta dichiarando, con la consumata abilità dei politici a “girare la frittata”, che “questa non è la fine del cammino, è solo l’inizio”.
Ora e nei prossimi giorni molti dei leader politici presenti dovranno ingegnarsi a giustificare, nei rispettivi paesi, l’evidente insuccesso della Conferenza ONU sul Clima – perchè di insuccesso si è trattato.
C’è solo una cosa, tuttavia, peggiore di un accordo debole e insignificante ed è spacciarlo per un buon accordo. Non si deve essere degli psicologi per capire che, nella vita come nel lavoro e nella politica, il primo passo per migliorare è riconoscere l’errore ed applicarsi per evitare di ripeterlo. Ma il rischio che già si palesa è che, dopo due settimane di maxi-conferenza, con 193 Paesi presenti, 110 capi di stato e di governo, 45.000 accreditati (e tonnellate di CO2 emesse nell’atmosfera per organizzarla), si senta l’esigenza di giustificarne comunque l’utilità, parlando di accordo “imperfetto” ma importante, di “intesa“, anche se non vincolante, e avanti così. No, diciamocelo chiaramente: per decidere quello che (non) si è deciso a Copenhagen non era il caso di organizzare un vertice di questa portata e con tali aspettative. Come rilevato già ieri dal delegato del Vaticano, “la montagna ha partorito un topolino”.
Questi i risultati: nessun target di riduzione obbligatorio delle emissioni; una generica prescrizione a “mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi”; impegno dei paesi industrializzati a mettere per iscritto entro il 1 febbraio 2010 la riduzione (volontaria) di CO2 nel periodo 2015-2020; “azioni di mitigazione in base alle loro specifiche caratteristiche nazionali” per i Paesi in via di sviluppo, con l’impegno biennale a fare rapporto sui risultati degli interventi; stanziamento a breve termine di 30 miliardi di dollari dal 2010 al 2012, per favorire la transizione a tecnologie pulite nei paesi poveri, con l’obiettivo di raggiungere (forse) i 100 miliardi di dollari entro il 2020.
Cifre che espresse in questo vuoto normativo significano ben poco. Se non forse la ripartizione del cosiddetto fast start, pronto subito: 3,6 miliardi dagli USA, 11 dal Giappone e 10,6 dall’Unione Europea – il padrone di casa del vertice, che voleva fare da apripista e si è visto chiudere sotto il naso il deludente “Copenhagen Accord“ dai meno ambiziosi (e più sbrigativi) USA insieme a Cina, India, Brasile e Sud Africa.
L’astuto Presidente Sarkozy non ha perso stempo a distogliere l’attenzione pubblica dall’insuccesso lanciando la palla avanti: “ci rivedremo fra sei mesi a Bonn per continuare il lavoro”.
Andrea Gandiglio
Sull’irrilevanza dell’Unione Europea a Copenhagen si veda Enzo Bettiza, “Gattopardi d’Europa“, La Stampa, 19 dicembre 2009