Italia, una miniera di servizi ecosistemici. Il valore economico occulto della natura
L’Italia ha il più alto tasso di biodiversità in Europa. 5.600 specie vegetali, pari al 50% delle specie europee, e oltre 57.000 specie animali, vale a dire il 30% di quelle presenti nell’intero continente. Una ricchezza che si concentra in una superficie pari ad un trentesimo di quella europea. Una ricchezza che tuttavia ha bisogno di essere tutelata. Il 30% degli habitat naturali italiani è infatti minacciato (la maggior parte dei quali è collegato agli ambienti umidi di palude, costa e ripariali), così come il 45% delle 1.265 specie di animali vertebrati presenti sul nostro territorio, il 15% delle piante superiori e il 40% di quelle inferiori. È questo il quadro della situazione che emerge dal convegno “La Natura dell’Italia. Biodiversità e aree protette: la Green economy per il rilancio del Paese” promossa dal Ministero dell’Ambiente con il contributo di i Federparchi-Europarc Italia, Unioncamere e Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile.
Il convegno, chiusosi ieri a Roma, è stata anche l’occasione per accendere i riflettori sul valore economico generato dalle aree protette e dalla biodiversita: «Secondo gli economisti, soprattutto anglosassoni – ricordano gli organizzatori – il valore medio per ettaro di una palude è di circa 2.300 dollari l’anno per servizi che vanno dal controllo delle inondazioni al filtraggio delle acque al turismo. Le aree umide europee producono complessivamente oltre 300 milioni di dollari l’anno. Nel Mediterraneo, secondo il Blue Plan delle Nazioni Unite, gli ecosistemi di confine come i delta, le paludi costiere, le lagune, valgono 2,4 milioni di euro l’anno per chilometro quadrato. Solo i benefici prodotti dagli ecosistemi marini nel nostro Paese valgono 9 miliardi l’anno, più di due IMU».
Esistono poi stime dei ritorni degli investimenti per la tutela degli ecosistemi. Secondo i dati TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity) i benefici economici netti assicurati in 40 anni dal restauro ambientale di un ettaro delle nostre foreste sono pari a 26.300 dollari (con un tasso di ritorno dell’investimento del 20%), per un ettaro di prateria a 22.600 dollari (ritorno dell’investimento del 79%), per un ettaro di fiume o di lago a 69.700 dollari (ROI del 27%), per un ettaro di zona umida dell’entroterra 171.300 dollari (ROI del 12%), per un ettaro di coste, infine, a 935.000 dollari (11% di ritorno sull’investimento). «Dividendi che, se venissero effettivamente calcolati dalla finanza e della politica, potrebbero effettivamente capovolgere l’agenda delle priorità mondiali» sottolineano i promotori del convegno.
Fondamentali sono anche le valutazioni legate alle politiche di difesa dell’atmosfera e di contenimento dei danni prodotti dal cambiamento climatico: le foreste danno un contributo importante in termini di assorbimento dei gas serra che destabilizzano il clima. E questo contributo aumenta con l’aumentare della biodiversità che rende più vitale l’ecosistema bosco: ogni ettaro di superficie boschiva nei parchi nazionali accumula 5,1 tonnellate carbonio in più rispetto a un ettaro di foresta non protetta (la differenza al 2020 salirà a 6 tonnellate per ettaro). In totale il sink annuale (la capacità di cattura delle emissioni) per il sistema dei parchi nazionali è di 6 milioni di tonnellate di carbonio (è il 6% dell’obiettivo che l’Italia si è impegnata a raggiungere firmando il protocollo di Kyoto).
Un contributo fondamentale arriva dalle aree protette. In Italia circa l’11 per cento del territorio italiano è tutelato da parchi nazionali e regionali, se si aggiungono i siti di interesse comunitario (Rete Natura 2000) la percentuale di estensione protetta arriva al 22 per cento. I dati del Ministero dell’Ambiente e di Federparchi presentati in occasione della conferenza scattano la fotografia dei ritorni economici: «I parchi sono anche aree di innovazione economica: quelli nazionali hanno dati economici doppi rispetto alle aree geografiche simili, nelle imprese – trainate dall’agricoltura e il turismo – lavorano più giovani e donne. Nella “cassaforte verde” della natura protetta italiana sono presenti il 17% degli insediamenti produttivi nazionali, sono stati attivati più di 82.000 posti di lavoro green direttamente collegati all’attività dalle attività ispirate e promosse dalla presenza di un’area protetta». Ma non esiste a oggi una valutazione dei veri e propri green jobs. «Di sicuro – aggiungono gli organizzatori – la maggior parte delle nuove imprese ha una fortissima caratterizzazione ‘verde’, e la maggioranza nasce attorno al recupero dell’agricoltura e della produzione alimentare e al turismo. Complessivamente, le imprese attive nelle aree protette nazionali e regionali sono oltre 756mila, secondo i dati forniti da Unioncamere, il 17% degli insediamenti produttivi nazionali».
I parchi costituiscono inoltre una partita in attivo per lo Stato. «Secondo una stima di Unioncamere, se si ipotizza un’influenza diretta delle politiche dei parchi nazionali anche solo su un decimo della ricchezza prodotta al loro interno, si arriva a una valutazione di 3,5 mld di euro l’anno di creazione di valore in diretta dipendenza dell’esistenza dell’area protetta stessa. Una somma – concludono i promotori del convegno – che, tradotta in tasse (Irpef, IVA, ecc.) vale circa 1,7 mld di euro di introiti per lo Stato, 25 volte di più di quello che lo stesso Stato spende per i 24 parchi nazionali italiani».
Giuseppe Iasparra