Il caso Ilva, in attesa del Riesame
Settemila operai in piazza, comizi dei leader sindacali interrotti, tensione, rabbia, fumogeni, incertezza, paura. E soprattutto un grande punto interrogativo: quale sarà il futuro dell’Ilva di Taranto e dei suoi undicimila lavoratori? La risposta, per ora, è ancora in sospeso. E però la soluzione di questa vertenza metterà in gioco non solo il destino dell’impianto siderurgico più grande d’Europa, ma anche la direzione che il paese prenderà nei rapporti tra industria e ambiente, lavoro e salute, sviluppo economico e tutela del territorio. Perché le decisioni del tribunale di Taranto pongono un punto ineludibile per lo Stato e per le aziende: con il sequestro degli impianti Ilva si sancisce il principio che non si può fare impresa a scapito delle leggi, della salute e del rispetto delle norme in materia di emissioni inquinanti. Si stabilisce cioé che le ragioni dell’economia e del lavoro non possono più prevalere sui diritti alla salute e alla tutela del territorio.
I fatti sono abbastanza noti. Il 26 luglio il gip di Taranto Patrizia Todisco ha ordinato il sequestro “senza facoltà d’uso” dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto, in cui lavorano 11.586 addetti, e ha disposto gli arresti domiciliari per otto persone (dirigenti ed ex dirigenti dell’azienda) con le accuse di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose.
Nelle motivazioni, il Gip ha spiegato che «la gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all’ambiente e alla salute delle persone»: nella popolazione residente a Taranto si sono osservati infatti «eccessi significativi di mortalità per tutte le cause e per il complesso delle patologie tumorali, per singoli tumori e per importanti patologie non tumorali, quali le malattie del sistema circolatorio, del sistema respiratorio e dell’apparato digerente, prefigurando quindi un quadro di mortalità molto critico».
Nei sette anni presi in considerazione dalle indagini sono 174 i decessi avvenuti a Taranto – in particolare nei quartieri Tamburi e Borgo – dovuti all’inquinamento. Il tribunale, in particolare, ha disposto una perizia epidemiologica dalla quale sono emersi eccessi di mortalità per patologia tumorale (+11%), in particolare per tumore dello stomaco (+107), della pleura (+71), della prostata (+50) e della vescica (+69).
La vicenda dell’Ilva di Taranto, che dopo un periodo di gestione statale è passata, nel 1995, al gruppo Riva, va avanti da tempo. Nel corso degli anni associazioni ambientaliste e comitati cittadini hanno più volte denunciato il livello d’inquinamento causato dalla diossina e dalle polveri. Secondo i dati del registro Ines (Inventario Nazionale Emissioni e loro Sorgenti) dall’Ilva di Taranto nel 2006 fuoriusciva il 92% della diossina prodotta in Italia e ogni abitante della città respirava in media all’anno 2,7 tonnellate di ossido di carbonio e 57,7 tonnellate di anidride carbonica.
Il sequestro dell’impianto deciso dal tribunale ha però scatenato le contestazioni di lavoratori e sindacati, dato che si perderebbero da un lato gli oltre undicimila posti di lavoro (cinquantamila contando anche l’indotto, secondo Fim, Fiom e Uilm) e dall’altro uno dei poli più importanti della siderurgia europea.
Il Ministero dell’Ambiente ha stilato un “Protocollo d’intesa per interventi urgenti di bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione di Taranto” stanziando 336 milioni di euro per l’attuazione dei provvedimenti. È necessario infatti realizzare la copertura dell’area dei parchi minerari per limitare la dispersione di polveri, ristrutturare i forni delle cockerie per ridurre la produzione di benzoapirene, nonché rinnovare i filtri di altiforni per controllare l’emissione di diossina.
Mettere in sicurezza l’Ilva vuol quindi dire non solo restituire a un’intera città il diritto di respirare un’aria salubre, non solo fermare lo scandalo delle morti dovute all’inquinamento, ma anche dimostrare, nei fatti, che lavoro e salute, impresa e ambiente, possono andare di pari passo, senza contrapposizioni dannose per i cittadini, per i territorio, per il Paese.
Marco Bobbio