I numeri del rischio idrogeologico: otto comuni su dieci in pericolo
L’82% per cento dei comuni italiani – 6.633 – ha sul proprio territorio zone a rischio idrogeologico. In Calabria, Molise, Umbria, Valle D’Aosta e in provincia di Trento il 100% dei comuni è classificato a rischio, seguiti da Marche e Liguria con il 99% e Lazio e Toscana con il 98%. In pratica, il 9,8% del territorio nazionale vive una criticità idrogeologica, un’area vasta 29.517 km quadrati dove abitano oltre 5 milioni di cittadini. Legambiente, con altre associazioni impegnate a sviluppare idee e progetti per rispondere a questa emergenza, ha presentato, in occasione della Conferenza nazionale sul rischio idrogeologico, i dati di una situazione che si ripete puntuale ogni autunno e che ogni anno, visti i continui cambiamenti climatici, si fa più preoccupante.
“Servirebbero 2,5 milioni l’anno per 15 anni per mettere in sicurezza il territorio”, spiega il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, aprendo la conferenza. “Auspico che il prossimo governo si impegni per una strategia nazionale per ovviare alle criticità”. Il problema, però, è che riparare i danni o rincorrere le emergenze costa sempre di più della prevenzione: “Solo per far fronte alle spese di somma urgenza e per le emergenze causate dagli eventi avvenuti nel triennio 2009-2012, abbiamo speso oltre un milione di euro al giorno, per un totale di circa 1 miliardo; ma i danni contabilizzati sono il triplo delle risorse stanziate”, sottolinea il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. Dal 1991 al 2010, sono infatti stati spesi 8,4 miliardi di euro per la prevenzione, 40 per la sistemazione dei dissesti e 22 per riparare i danni.
Continua Cogliati Dezza: “La prevenzione tarda ad arrivare: da un’analisi degli interventi attuati e finanziati fino ad oggi, elaborata da Legambiente, risulta che negli ultimi 10 anni solo 2 miliardi di euro sono stati effettivamente erogati per attuare gli interventi di prevenzione disposti dai Piani di Assetto Idrogeologico redatti dalle Autorità di Bacino, per uno stanziamento totale di 4,5 miliardi di euro”. Il presidente ricorda poi come l’ultimo Parlamento ha respinto otto richieste di condoni edilizi: “Nel 31% dei comuni a rischio ci sono interi quartieri in aree ad alto rischio idrogeologico, e che finora solo il 4% delle abitazioni ed il 2% delle industrie situate in queste aree è stato delocalizzato. In Italia continua a proliferare l’industria della ‘riparazione’ mentre manca quella della prevenzione”. Se poi si guardano i programmi elettorali o le agende che animano la campagna elettorale, “il capitolo ambiente non manca mai. Ma è l’attuazione che viene rimandata al secondo tempo. È necessario chiedere tempi certi alla politica che non può, o non vuole, affrontare alcuni temi”.
E se da una parte negli ultimi trent’anni 3 milioni di ettari di terreno coltivato (pari a Sicilia e Val D’Aosta) sono stati abbandonati, con oltre un milione di contadini costretti a lasciare la terra incolta e quindi togliendo di fatto una delle barriere naturali alle frane, dall’altra c’è l’Anci, che per bocca del responsabile di Protezione Civile e Sindaco di Perugia Wladimiro Boccali denuncia da anni la necessità di un Piano Nazionale sul Dissesto Idrogeologico. “In Italia manca una cultura: la legislazione fatta solo di divieti prima o poi viene aggirata”. L’Istituto Nazionale di Urbanistica, da parte sua denuncia l’inadempienza del Parlamento dal 2001 rispetto alla necessità urgente di una legge nazionale sui principi del governo del territorio. Nello specifico, poi, il Consiglio Nazionale dei Geologi sottolinea l’urgenza di un programma di prevenzione nei confronti dei fenomeni naturali calamitosi. Nel 2013, infatti, ricorrono i 50 anni della catastrofe del Vajont e dal 6 al 10 ottobre, i geologi hanno organizzati a Longarone e all’Università di Padova un programma di eventi per confrontarsi sulla prevenzione del dissesto idrogeologico in un Paese fragile come l’Italia.
“Continuiamo a vivere una carenza di governo del territorio – dice Bernardino De Bernardinis, presidente dell’Ispra – Nella fiumara di Reggio Calabria, io ci ho visto il tribunale”. Perché un altro nodo da sciogliere per salvaguardare il territorio è il consumo del suolo che nel nostro Paese è cresciuto a una media di 8 metri quadrati al secondo, secondo i risultati di un’indagine proprio dell’Ispra, che ha analizzato i dati relativi alla quota di superficie consumata, ovvero aree edificate, coperture del suolo artificiali (cave, discariche e cantieri) e tutte le aree impermeabilizzate, non necessariamente urbane (infrastrutture). In pratica, dal 1956 il processo di consumo del territorio non conosce battute d’arresto, anzi: si è passati dal 2,8% del 1956 al 6,9% del 2010. Sono stati consumati, in media, più di 7 metri quadrati al secondo per oltre 50 anni. Un’impennata si è avuta negli anni ’90, quando si è arrivati a consumare 10 mq al secondo, ma anche negli ultimi anni il ritmo non è mai sceso sotto gli 8 mq al secondo. In pratica, volendo fare un paragone, è come se ogni cinque mesi venisse cementificata la città di Napoli e ogni anno le città di Milano e Firenze assieme.
Non va meglio in Europa: secondo il rapporto “Overview on best practices for limiting soil sealing and mitigating its effects”, presentato per la prima volta in Italia dalla Commissione Europea, il 2,3% del territorio continentale è ricoperto da cemento. Dai 1.000 Kmq stimati nel 2011 dalla Commissione Europea, ovvero circa 275 ettari al giorno, si è passati ai 920 kmq l’anno (252 ettari al giorno) in soli 6 anni (2000 – 2006). Ogni cittadino europeo consuma 390 mq di suolo, 15 in più rispetto al 1990. Di questi, circa 200 sono effettivamente impermeabilizzati – coperti da cemento o asfalto – per un totale di 100.000 km e questo diminuisce i benefici del suolo e scarica effetti diretti e indiretti sul microclima, producendo un aumento delle inondazioni.
Marta Rossi