Cave: in cerca di ricette per far convivere attività estrattive e ambiente
«Il disegno di legge fa l’esclusivo interesse dei cavatori. A farne le spese il territorio e la green economy». È quanto denunciato recentemente da Legambiente Piemonte Valle d’Aosta e Libera Piemonte in merito alle modifiche alla legge regionale piemontese sulle attività estrattive.
«Sia la normativa nazionale che quella regionale sono state formulate in una prospettiva “sviluppista” che immaginava la domanda di inerti in crescita costante, le risorse abbondanti e le criticità ambientali scarse» ha spiegato Fabio Dovana, presidente regionale di Legambiente che ha aggiunto: «Non sussistono più ragioni credibili per non ridurre in maniera significativa il prelievo da cave attraverso il recupero e il riutilizzo degli inerti provenienti dall’edilizia ma semmai l’urgenza di procedere in tale direzione attraverso regole chiare, ferme e una giusta tassazione».
Nelle osservazioni presentate alla Regione Piemonte, le associazioni sottolineano che la «pianificazione territoriale nel settore delle attività estrattive in Piemonte è praticamente disattesa giacché la maggior parte delle Province non ha adottato i piani delle attività estrattive a livello provinciale (PDAE). È assente – si legge ancora nel documento – un piano regionale di recupero ambientale delle cave dismesse o abbandonate. L’assenza di una pianificazione provinciale è particolarmente grave perché, di fatto, viene demandato a chi concede l’autorizzazione a cavare (prevalentemente i Comuni, soggetti sovente privi di strutture e competenze idonee) una eccessiva discrezionalità decisionale in quanto assenti qualsiasi riferimenti su “quanto”, “dove” e “come” cavare».
«Questa critica all’approccio “sviluppista” è assolutamente condivisibile» ha affermato Carlo Colombino, presidente di UNIMIN (associazione operatori lapidei). «L’approccio sviluppista si è manifestato anche nel settore delle costruzioni. Tutti i Comuni hanno approvato Piani regolatori non tarati sulla reale esigenza abitativa ma sulla possibilità di incassare oneri. Alla fine i risultati sono sotto gli occhi di tutti: siamo pieni di case e capannoni che non sappiamo più a chi vendere. Per le cave è successa una cosa analoga. Per quanto riguarda invece la pianificazione – ha continuato Carlo Colombino – noi di UNIMIN siamo i primi a volerla. Se oggi il mercato chiede 10 è inutile che si autorizzi 40. Per noi è un problema dal punto di vista economico. Ma è anche un problema per l’ambiente perché si va a sprecare un risorsa che non è rinnovabile trattandosi, oltretutto, di un’attività con un impatto non trascurabile. La pianificazione deve quindi tararsi su quelli che sono i reali fabbisogni».
A differenza di Legambiente e Libera che criticano la proroga e l’aumento dei tempi di concessione delle attività estrattive, il presidente di UNIMIN vede con favore questa possibilità: «Chiediamo la proroga perché il mercato è crollato (50% in pochi anni) e le cave non si esauriranno nei tempi previsti». Un aspetto su cui andrebbe posta l’attenzione, secondo Colombino, sono invece le cosiddette “cave di prestito”: «Si tratta di siti di estrazione aperti in relazione ai materiali necessari per la costruzione di grandi opere (come nel caso delle linee ad alta velocità). Oggi, con l’abbondanza di materiale, modificare in eccesso questa normativa non ha senso. Basta andare presso le cave esistenti: il materiale te lo “tirano dietro”». Si potrebbe porre fine a questo tipo di cave? «Se oggi dovessero smettere di autorizzare cave – ha sottolineato il presidente di UNIMIN – avremmo materiale in abbondanza per i prossimi 20 anni».
Le associazioni ricordano, inoltre, che in Italia «viene riutilizzato o riciclato solo il 10% circa del materiale a fronte del 95% dei Paesi Bassi o della Danimarca». Questa pratica non potrebbe aumentare coniugandosi con le attività estrattive tradizionali? «Assolutamente sì. A meta anni Novanta, il gruppo di cui faccio parte, ha avviato un’attività di riciclaggio in parallelo all’attività estrattiva. E oggi abbiamo un grosso impianto di recupero rifiuti edili nel nostro sito di La Loggia».
La Loggia è uno dei comuni compreso nella fascia fluviale del Po a sud di Torino, area nella quale insistono diverse attività estrattive. Lungo questa fascia fluviale è attivo un accordo che impegna le imprese ad avviare, contestualmente al proseguimento delle attività di estrazione, interventi di riqualificazione ambientale dei lotti progressivamente dismessi. «Riteniamo – ha spiegato Ippolito Ostellino, direttore del Parco del Po – che il nostro sia un esempio virtuoso su come fare andare d’accordo le attività estrattive delle fasce fluviali con il territorio ed in particolare con un’area protetta. Siamo riusciti a far realizzare importanti attività di recupero ambientale. Svariati metri quadrati di territorio sono stati convertiti ad un riuso di qualità (piantumazione di alberi, disegni morfologici dei laghi). Quel vecchio concetto che “la cava fa solamente dei buchi”, nel nostro caso è stato superato».
L’obiettivo finale è la costituzione del “Parco dei Laghi di cava del Po”: un progetto ambizioso che si propone di mettere a sistema le aree estrattive riqualificate e valorizzare il grande potenziale paesaggistico, ecologico, storico che questa area rappresenta all’interno del sistema Corona Verde. L’esempio del Parco del Po è un modello esportabile? «Sarebbe esportabile con modelli di gestione e pianificazione come quelli che noi abbiamo applicato. Vedo purtroppo – ha concluso Ostellino – che la parola pianificazione non piace più a tante persone e a tanti soggetti. Dovrebbero essere tutti più disponibili».
Giuseppe Iasparra