Ugo Morelli e la psicologia del conflitto tra uomo e ambiente
Per cambiare il nostro rapporto con la natura dobbiamo affrontare i conflitti sociali, collettivi, ma anche intrapsichici, che per millenni abbiamo “negato, rinviato, spostato, dislocato”. Per far funzionare di nuovo l’economia, dobbiamo “partire dal coraggio di assumere la decrescita come obiettivo necessario, richiesto preferibile” e “affrontare i conflitti che un simile cambiamento comporta e richiede”. E per far sì che le persone comprendano tutte le implicazioni legate alle emergenze ecologiche, è indispensabile “un grande lavoro di educazione, per insegnare ai cittadini a gestire i propri conflitti intrapsichici che derivano dalla messa in discussione dell’idea dell’uomo come dominatore della natura”. Nel libro “Il conflitto generativo. La responsabilità del dialogo contro la globalizzazione dell’indifferenza”, di recente pubblicato dalla casa editrice Città Nuova, Ugo Morelli, docente di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni all’Università di Bergamo e fondatore della scuola di formazione e studio sui conflitti Polemos, propone una lettura interessante dei meccanismi che, nonostante la situazione del Pianeta, continuano a frenare un effettivo cambiamento. Morelli usa in modo proficuo la categoria del “conflitto”, inteso come dialogo e confronto tra posizioni diverse, mostrando come una sua negazione o dilazione, in favore di forme di opposizione più aggressive, conduca, in un circolo vizioso, al perpetuarsi del dominio cieco dell’uomo sulla natura. Il confronto tra voci diverse, in partenza in disaccordo, potrebbe invece innescare quel cambiamento di prospettiva di cui c’è sempre più urgente bisogno.
D) Professor Morelli, all’inizio del libro spiega come molte situazioni vengano spesso ridotte a guerra, senza dare spazio a processi di gestione dei conflitti che potrebbero invece portare a soluzioni inedite ed efficaci. Cosa sta succedendo?
R) Vedo all’opera l’assenza di una cultura del confronto. Il termine “conflitto” viene dal latino cum fligere, che ha lo stesso significato di “confronto” e “dialogo”, mentre la guerra è antagonismo. Nella nostra esperienza, quando incontriamo una differenza, dal punto di vista psicologico è come se ci trovassimo di fronte a un bivio: da una parte c’è la necessità di conoscere, guidata dalla curiosità; dall’altra c’è la propensione, che spesso prevale, a negare la differenza perché non corrisponde a ciò che faremmo noi. E prima di capire, tendiamo così a negare. Una gestione del conflitto, che presuppone di rimboccarsi le maniche e dialogare, porta a scegliere, tra la soluzione 1 e la soluzione 2, ottimali per solo una delle due parti, la 3, sub-ottimale per entrambe.
D) È così anche nel caso di grandi opere e infrastrutture con un impatto ambientale significativo?
R) Nel caso di grandi opere e infrastrutture, che in diversi casi sono anche l’espressione di interessi minoritari, instaurare da subito un antagonismo significa non chiedersi quali ragioni ci siano dietro al progetto. Spesso gli oppositori dicono no, ma non presentano mai soluzioni per affrontare la questione che sta dietro alla costruzione dell’opera. In questo modo, si esclude la possibilità che invece dal conflitto nasca una soluzione cooperativa. La guerra non solo è distruttiva, ma non risolve nessun problema. Prendiamo il caso dell’Alta velocità: sono d’accordo con chi sostiene che il progetto non tiene conto di aspetti ecologici, ma è innegabile che ha dietro di sé una domanda di mobilità dei cittadini.
D) “Accordi ambientali a livello locale e non solo prediche ambientaliste dovrebbero partire dal coraggio di assumere la decrescita come obiettivo necessario, richiesto e preferibile. Si tratta di affrontare i conflitti che un simile cambiamento comporta e richiede”, scrive a pagina 196. E poi prosegue più avanti: “Evitare il conflitto significa consegnarsi alla deriva di quello che è stato chiamato l’“inferno” della crescita”. Al momento non adottiamo un nuovo modello e rimandiamo il conflitto per paura o per incapacità?
R) Il problema dell’accessibilità ai conflitti è molto importante. Il quieto vivere piace a tutti. Accedere al conflitto ci mette di fronte a un esito incerto, rispetto invece a una situazione di antagonismo in cui si insiste sulla propria posizione. Vincere o perdere è immediato, mentre trovare una soluzione cooperativa è più faticoso.
D) Nel libro lei spiega come il nostro rapporto con la natura e gli animali sia sempre stato improntato ai conflitti. Conflitti che però, scrive, abbiamo “negato, rinviato, spostato, dislocato”. Pensa che se avessimo affrontato di volta in volta questi conflitti, oggi la situazione in cui si trova la Terra sarebbe diversa?
R) Sì, ne sono convinto. Non dobbiamo dimenticare che siamo Sapiens da 200.000 anni e che ci siamo dipartiti dalle scimmie antropomorfe 6,3 milioni di anni fa. Oggi siamo gli unici pervasivi predatori della natura, ma è passato troppo poco tempo da quando eravamo prede perché possiamo riconvertire la nostra paura. A partire da uno stato di minorità, abbiamo rovesciato il gioco per diventare dominatori. Una situazione che ci ha fatto considerare la nostra convivenza con la natura non un conflitto in cui ascoltare anche le esigenze dell’altra parte, ma un diritto di dominio. Pensiamo ai grandi miti religiosi, in cui si dice che il mondo è stato creato per l’uomo e che lui è il padrone della natura. In un conflitto bisogna riconoscere all’altro – in questo caso l’ambiente – il diritto di parola, cosa che non facciamo mai. Il problema è che noi diamo per scontata la nostra presenza sulla Terra, non riconoscendone invece la conflittualità. Questa superiorità data per scontata porta all’autodistruzione.
D) Sulle fonti energetiche rinnovabili, lei scrive: “Somigliano a palliativi, o meglio ancora a strategie difensive per evitare di affrontare il problema. Sembrano un mito che nasconde il problema”. Potrebbe spiegare meglio questo concetto?
R) Per trattare la questione bisogna partire dal concetto di sostenibilità, che penso sia diventato una specie di coperta corta che si può tirare da tutti i lati, al punto che non è più possibile ricondurlo ad alcun elemento fattuale. Lavorare sulle energie rinnovabili, così come su auto a basso impatto ambientale, non dovrebbe esimerci dal riconoscere il limite dello sviluppo, perché il limite è la condizione della possibilità, di ciò che possiamo fare, e non il suo contrario. Questo però implica la gestione di un nostro conflitto intrapsichico, perché ci porta a dover mettere in discussione le nostre certezze. Solo così possiamo arrivare a cambiare i nostri comportamenti. Sono preoccupato che tutte le soluzioni riparative che si mettono in atto siano un modo per evitare invece una effettiva presa di responsabilità. Non vorrei che produrre energia rinnovabile diventasse un modo per evitare di cambiare i nostri comportamenti. Il problema è ridurre e redistribuire, non solo trovare le alternative, che da sole non basteranno.
D) Nel libro evidenzia come siamo stati ridotti “da cittadini a clienti” del mercato, dell’assistenza pubblica, delle forme di potere. Questa condizione ci rende meno capaci di affrontare i nostri conflitti e responsabilizzarci su grandi problemi come i cambiamenti climatici?
R) In questi anni non abbiamo fatto niente per educare i cittadini alla democrazia. Non si può immaginare che nasca una consapevolezza al problema ecologico senza un’educazione. Oggi siamo convinti di essere dominatori della natura: mettere in discussione una convinzione storica come questa e comprendere la convenienza delle altre possibilità comporterebbe una grossa ferita narcisistica che possiamo affrontare solo se impariamo a gestire i nostri conflitti intrapsichici. Per questo c’è bisogno di un grande lavoro di educazione, non solo a scuola con i bambini, ma anche attraverso la comunicazione pubblica. In questo senso, il programma di Luca Mercalli “Scala Mercalli”, dal 28 febbraio in prima serata su Rai Tre, a cui anch’io ho contribuito, sarà un primo passo. In televisione non era mai stato fatto niente del genere: i cambiamenti climatici erano sempre stati raccontati dai media con un taglio sensazionalistico e amplificando gli antagonismi della protesta, senza spiegare i cambi di comportamento da mettere in atto e le possibili soluzioni.
Veronica Ulivieri