Perché Expo 2015 è già una scommessa persa
Premesse: 1) l’Expo non è una scommessa “già vinta” per il solo fatto di aver aperto il 1° maggio. 2) Non saranno i 20 o più milioni di visitatori e gli eventuali incassi commerciali a determinare o meno la vittoria della scommessa. 3) Non serve nemmeno aspettare 6 mesi per rendersi conto che è un’enorme opportunità che è già stata persa. 4) Non si capisce perché in epoca berlusconiana criticare significasse esercitare legittimamente lo spirito critico, mentre in era renziana significhi gufare. 5) La questione, infatti, non è essere pro o contro, né criticare per mero gusto del disfattismo, ma analizzare in maniera costruttiva, per correggere la rotta del futuro.
E’così difficile, in questo Paese, parlare di Expo che, dopo cinque precisazioni devo anche aggiungere delle scuse preliminari per quello che scriverò: ai 13.000 lavoratori, volontari e Forze dell’Ordine che tutti i giorni aprono, fanno funzionare e chiudono il sito di Expo e che, forse, ci credono veramente. E a tutti quelli (imprese, maestranze, ecc.) che ci hanno lavorato – e che ci stanno ancora lavorando (perché i lavori, ovviamente, non sono finiti, diversamente da quanto ha dichiarato il Presidente del Consiglio). A tutti loro va il mio apprezzamento umano, anche perché non hanno alcuna responsabilità di quanto deciso e progettato da altri.
Ora però veniamo al merito. “Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita” è un tema troppo ambizioso e importante per essere trattato come un centro commerciale. Perché Expo, al di là delle suggestioni e dell’innegabile curiosità che suscita, è questo: una via di mezzo tra un enorme centro commerciale e un parco divertimenti tematico. E io non vorrei che fosse questo il modello del futuro, né per me né per i miei figli. Mi mette già abbastanza tristezza oggi vedere come quegli orrendi non-luoghi di cemento fuori città siano diventati la meta di pellegrinaggio di tante famiglie, nel weekend, per immaginare di doverci convivere anche in futuro. Eppure la logica è la stessa: musica, luci e divertimento, fakes, messaggi facili e banali per non “stressare” troppo, qualche illusione di “contenuto” (molti video, poche parole e pochissimi oggetti tangibili), per sentirsi a posto con la coscienza, cibo facile e veloce – non importa se standardizzato e povero di qualità.
Percorrere le due perpendicolari (mi perdonerà il sommo Fuksas se banalizzo la sua geniale reinterpretazione asfaltata del Castrum romano) mi ricorda una visita, da bambino, all’EPCOT Center costruito in Florida dalla Disney: “Per tutti coloro che vengono in questo luogo di gioia, di speranza di impresa e concetti di un futuro che promette nuovi ed entusiasmanti vantaggi per tutti – recitava la dedica all’ingresso – Che Epcot Center possa intrattenere, informare e ispirare e, soprattutto, possa infondere un nuovo senso di fede e di orgoglio nella capacità dell’uomo di plasmare un mondo che offre speranza alle persone in tutto il mondo”. Ma era il 1982! C’era Reagan presidente, gli yuppies, stava per nascere il personaggio di Gordon Gekko e in Italia si affermavano i paninari e il Drive In. Pensavo avessimo fatto qualche passo in avanti (o anche indietro, ma non fermi). E invece i big di Expo 2015 sono ancora Coca Cola e McDonald’s.
Sentite come Marco Balich (insostituito cerimoniere di tutti i mega-eventi italiani per il grande pubblico, dalle Olimpiadi Invernali 2006 al lancio della Fiat 500), descrive l’Albero della Vita, simbolo del Padiglione Italia: “L’albero e’un’icona. L’ispirazione e’a quest’opera d’arte complessa, ma anche al buddismo e all’Islam, ad Avatar e alla cultura messicana“… Piena new age, applicata ad una torre che poco si distingue dai ripetitori televisivi di Cologno Monzese.
Ma possibile che nessuno abbia avuto le palle di lanciare e costruire un messaggio forte, alternativo? Una grande vetrina di produttori artigianali (ma anche industriali), delle vere eccellenze locali così come delle piccole produzioni nazionali, magari pessime ma introvabili altrove, “autentiche”. Perché nel bar del Padiglione dell’Angola servono caffè italiano, camomilla Bonomelli, birra Nastro Azzurro, tè Twinings? Perché in quasi tutti i padiglioni gli unici soft drinks sono Fanta e Coca-Cola? Non ne producono altri? Perché nel buffet organizzato da Ecor-NaturaSì l’unica bevanda che manca è proprio la loro ottima Cola biologica della Galvanina di Rimini? Quando nel Padiglione della Bielorussia trovo il succo di betulla, prodotto a Minsk, quasi mi commuovo. Ero così curioso di provare cosa beve un bielorusso che ho assaggiato addirittura lo “champagne” locale. In questo caso non importa il gusto, ma quanto quel prodotto ti racconta di quel mercato. Julia mi spiega che avrebbero voluto portare anche il caffè dell’unico trasformatore nazionale (magari pessimo, ma rappresentativo di un modo “diverso” di intendere il caffè), ma non hanno potuto perché si chiama “Barista“, che in Italia è un marchio registrato e l’Expo non consente deroghe alle regole sulle importazioni. Hanno rischiato di non avere nemmeno le matrioske, perché i produttori locali erano privi delle certificazioni sul legno richieste dalla UE. Cosa dovrebbero fare, esporre quelle di una multinazionale, magari prodotte in Cina, purché col “timbro” giusto?
Qualcuno con le palle, in realtà, bazzica anche i vialoni di Expo. All’inaugurazione del Padiglione del Biologico, l’attivista indiana Vandana Shiva non risparmia nessuno e parla per trenta minuti di fila, senza peli sulla lingua e senza particolari attenzioni “istituzionali”, a fianco di un Viceministro all’Agricoltura che sorride a denti stretti. Dopo cinque minuti dall’attacco a Coca-Cola e Monsanto in sala si materializza magicamente Giuseppe Sala, il commissario straordinario, che rassicura sul fatto che “verrà data voce a tutti” e alla fine dell’Expo saranno i 20 milioni di visitatori a “decidere chi avrà ragione”. La solita dittatura della maggioranza addomesticata. Certo che se al biologico lasci una “riserva indiana” in un angolo mal servito dai mezzi (casualmente i parcheggi per bus e auto privati sono stati spostati all’ingresso opposto, quello della Terrazza Martini, mi fanno notare le malelingue) e il mondo del “convenzionale” ha tutto il resto del palco per urlare, è difficile fare proseliti e spiegare cosa sia esattamente la “sostenibilità“. Il Viceministro Olivero però toglie ogni dubbio: “Il biologico non è più una nicchia, ma la punta di diamante di una nuova agricoltura“. Il mio vicino di sedia mi ricorda che sono le stesse parole pronunciate da Alemanno dieci anni prima.
Frasi già dette, film già visti. L’impressione è che non possa certo essere il carrozzone dell’Expo a far ripartire il Paese, ma che, al massimo (se siamo fortunati), possa essere l’ultimo brutto capitolo di una lunga storia da superare e dimenticare. Ma sarà dura.
Una delle poche voci autentiche che incontro – non a caso a Cascina Triulza, unico edificio “autentico” dell’Expo – la combattiva Rita de Santis, che organizza una piccola mostra sulle “parole della discriminazione”, mi dice che da quelle parti di gente ne passa poca. La cascina, benché sia un caso virtuoso di recupero dell’esistente con protocollo LEED, non spara infatti luci e colori come gli altri padiglioni e attira meno il visitatore distratto. Ha la virtù di essere discreta, che qui è una pecca. Eppure in quelle poche centinaia di metri quadrati (su un milione di metri quadrati totali) si incontrano delle realtà locali interessanti, che ruotano di settimana in settimana. Questa è la settimana lombarda e alcuni ragazzi bergamaschi presentano, in un banchetto, il recupero di varietà antiche del mais e altri prodotti che hanno una storia da raccontare e una faccia da abbinare. Sarebbe stato bello invertire l’assegnazione delle metrature. Forse gli italiani si sarebbero anche autotassati di qualche euro se gli organizzatori glielo avessero proposto. Oppure una campagna di crowdfunding internazionale avrebbe sostituito i grandi sponsor per lasciare che le vere eccellenze, quei produttori che si fanno il mazzo triplo ogni giorno e non vengono aiutati da nessuno, avessero più visibilità e gloria. O chissà cos’altro. Per fortuna il mondo fuori dall’Expo è molto più avanti nel futuro di quanto non lo siano i Padiglioni all’interno. Non resta che sperare. E non perdere lo spirito critico e costruttivo.
Andrea Gandiglio
Su Facebook il mio reportage fotografico della visita del 16 maggio.