La permacoltura come filosofia progettuale. Intervista a Stefano Soldati
«Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà» scriveva Bernardo di Chiaravalle nell’anno Mille circa. Questa frase non può che essere appresa come lezione di vita in un mondo dove il denaro, la spregiudicatezza dell’edilizia, l’affermarsi di uno su tanti prende il sopravvento e la natura nonostante tutto, con la sua bellezza, continua a darci utili lezioni.
Gli insegnamenti di Bernardo di Chiaravalle sono un po’ la filosofia di vita di Stefano Soldati, pioniere in Italia delle case di paglia, che da oltre trent’anni si occupa di cerealicoltura e di agricolture alternative. Primo Presidente dell’Accademia Italiana di Permacultura, ha studiato nel Regno Unito le tecniche di costruzione con balle di paglia, l’intonaco in terra cruda e in calce, affermandosi come progettista e docente di Food Forest nella sua Scuola di Pratiche Sostenibili nel Parco Agricolo Sud Milano.
Abbiamo fatto qualche domanda a Soldati in esclusiva per i nostri lettori di Greenews,info appassionati di bioedilizia.
D) Soldati, da oltre trenta anni lei si occupa di agricolture alternative ed è uno dei primi italiani laureati in “Permacultura”. Ci può spiegare qualcosa in più di questa disciplina?
R) Mi sono avvicinato per caso alla Permacultura pensando che fosse una serie di tecniche agricole. Con mio grande stupore, mi sono reso conto che non era una disciplina tecnica legata all’agricoltura, ma una serie di principi per progettare in modo sostenibile. Si tratta di un processo integrato di progettazione che dà come risultato un ambiente sostenibile, equilibrato ed estetico. Applicando i principi e le strategie ecologiche si può ripristinare l’equilibrio di quei sistemi che sono alla base della vita. La Permacultura è la progettazione, la conservazione consapevole ed etica di ecosistemi produttivi che hanno la diversità, la stabilità e la flessibilità degli ecosistemi naturali.
D) Come nasce l’idea della sua Scuola di Pratiche Sostenibili?
R) La “Scuola di Pratiche Sostenibili nel Parco Agricolo Sud Milano” risponde al bisogno delle persone di recuperare e sviluppare le conoscenze pratiche utili in un’idea di sostenibilità, mettendo a disposizione l’esperienza di persone che da anni lavorano sul campo a sviluppare pratiche di azioni sostenibili. In Italia non c’è ancora niente di simile e quindi ci è venuto in mente di proporlo, e per realizzarlo era fondamentale avere un punto da identificare come centro di formazione, la Scuola appunto. Nella Cascina, un’Azienda Agricola privata, abbiamo creato qualcosa di diverso: non volevamo che fosse semplice agriturismo, ma uno spazio dove invece l’ospite potesse tornare a casa arricchito di nuove conoscenze, molto più importanti. Potremmo definirlo una sorta di agriturismo responsabile.
D) Lei ha insegnato e fatto molte esperienze estere: cosa ha imparato da altri Paesi e cosa invece ha portato come valore aggiuntivo nella loro cultura?
R) All’estero noi italiani possiamo portare la creatività, che ci contraddistingue e che fuori dal nostro Paese non hanno, nel modo di affrontare le situazioni. Ho avuto l’opportunità di confrontarmi con realtà diverse dalla mia e di fare esperienze che mi hanno segnato, sia come uomo che come naturalista. Credo che già soltanto il fatto di uscire dai nostri schemi e confrontarsi con altre realtà sia importante per la crescita di ogni individuo, soprattutto se giovane e in fase di formazione. In ogni luogo c’è da fare e da imparare, mantenendo un approccio umile ed uno sguardo curioso verso “l’altro”. L’esperienza della Cascina Santa Brera è senza dubbio variegata ed incontra tanti sapere differenti, ma è soltanto uno dei tanti luoghi dove si possono maturare interessanti esperienze. Le radici didattiche della Scuola sono basate sull’apprendimento attivo e sulla co-formazione e le lezioni in aula si alternano con momenti esperienziali pratici e con attività di condivisione delle conoscenze, per mettere in comune la competenza del docente con le esperienze di tutti i partecipanti, in uno spirito di arricchimento reciproco.
D) I suoi corsi sono numerosi e molte persone si iscrivono per sviluppare e migliorare le loro conoscenze pratiche in una visione più sostenibile. Come convivono principi etici ed ecologici in una città frenetica come Milano? Ci sono dei consigli utili che si sente di dare per far capire alle persone l’importanza di vivere sostenibile?
R) Le persone che si avvicinano ad un’agricoltura sostenibile sono poche rispetto alle masse di popolazione che abitano le metropoli, ma nonostante questo vedo i milanesi molto ricettivi ed interessati ad apprendere una realtà come questa. Credo che in generale sia incrementato il numero di persone che si avvicinano alla sostenibilità e sono molti i cittadini che vogliono cambiare la loro vita all’interno delle grandi città o creare situazioni di cohousing: vedo una comunità oggi più orientata al rispetto per la natura. Diverse sono le piccole cose indice di un cambiamento di sensibilità in atto, come la crescita di gruppi di acquisto solidale anche in città o l’aumento delle pratiche che ci portano alla cura dell’essere umano ed alla cura per l’ambiente. Spero che finalmente stiamo andando nella direzione giusta, più sostenibile e green.
D) Ci può spiegare cosa si intende per Food Forest?
R) Si tratta di un sistema agricolo composto da alberi, arbusti, cespugli, rampicanti, piante erbacee perenni da foglia e da radice, che producano frutti, foglie, fiori, radici, legna utilizzabili in cucina o erboristeria. Riproducendo quanto fa la Natura, possiamo creare un giardino che diventerà al più presto autosufficiente, assai produttivo ed estremamente bello. La Food Forest, che si può tradurre letteralmente come foresta di cibo, o se più piccola, giardino commestibile, è un sistema quindi che può essere completamente realizzato o modificato ed integrato a partire dall’osservazione del funzionamento di un sistema naturale. Per essere autosufficiente, un sistema deve produrre cose come cibo, prodotti medicinali o terapici da frutti, fiori, foglie e radici; nel Food Forest si cercano di recuperare anche le antiche varietà di piante che oggi son del tutto trascurate come il Nespolo germanico, la Rosa canina ed altri, tutti piantati in modo da ricreare un sistema molto simile a quello naturale, che non abbia bisogno di manutenzioni particolari ma allo stesso tempo molto efficiente dal punto di vista energetico e naturale.
D) Avvicinare i bambini all’ambiente dovrebbe essere uno dei compiti fondamentali della scuola. Come vi state muovendo in questa direzione?
R) Stiamo cercando di realizzare progetti di Food Forest per avvicinare i bambini alla natura: cerchiamo di inserire gli orti nella didattica per una maggiore sensibilizzazione di grandi e piccini. Dobbiamo ricordarci che l’ambiente, di cui noi siamo i principali devastatori, è di tutti e soprattutto è un bene comune e noi siamo direttamente responsabili di quello che facciamo (o che non facciamo abbastanza) per il nostro ambiente. Trasmettere questo senso di bene comune ai bambini è fondamentale. Nei nostri corsi insegniamo come conoscere, riconoscere e trapiantare le principali piante commestibili utilizzabili: noci, kaki, noccioli, salici, giuggioli, sambuchi, corbezzoli, rose canine, pruni, mirabolani e moltissime altre. Purtroppo non si considera abbastanza nelle scuole, così come non si insegna più l’educazione civica. Paradossalmente, i bambini sanno usare alla perfezione un computer o un videogioco ma non sanno quali siano le verdure o i frutti di stagione, ed è un grave segnale per noi che qualcosa non funziona.
D) Avete dei programmi in vista per l’Expo, visto che il tema sarà proprio il Nutrire il Pianeta?
R) Personalmente mi occupo di informazione e non conosco esattamente quello di cui si stanno occupando, però sono un po’ preoccupato. Ho visto costruire molti cassoni ibridi e temo stia diventando un business più che un’opportunità per un reale focus sulle tematiche fondamentali dell’alimentazione in relazione al nostro Pianeta. Credo che l’OGM non sia la soluzione ai problemi: stiamo impoverendo le nostre terre e rendendole poco fertili e la “generazione del geneticamente modificato” sembra cercare una soluzione inventando un’ulteriore varietà di pianta che sarà ancora più resistente alle condizioni di deserto e di depauperamento della Terra. Non credo che questo sia un modo sostenibile di ragionare: dovremmo fare un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente, anche estensiva con grandi produzioni di cibo, ma in grado di mantenere la fertilità di queste terre e di non esaurire le nostre risorse naturali. Pensare sostenibile significa non solo rispettare il nostro paesaggio, ma anche garantire un futuro alle generazioni che verranno dopo di noi, ai nostri figli quindi.
Valentina Burgassi