Botanica urbana: in compagnia delle piante di città nel libro di Fabrizio Zara
Agosto, come noto, è il mese in cui la città si può osservare meglio, e con occhi diversi. Per chi ci rimarrà nei prossimi giorni la città potrà, sorprendentemente, presentarsi anche come un luogo di grande biodiversità. Il rapporto con la natura può dunque essere ricostruito anche nello spazio urbano, per esempio imparando a riconoscere le piante e gli habitat in cui vivono. Da questa idea è nato il libricino “Botanica urbana, riconoscere le piante medicinali in città” (Aboca Edizioni, 106 pp., 5 euro), di Fabrizio Zara, responsabile della ricerca botanica e curatore del giardino medicinale di Aboca, con introduzione di Michele Serra.
Il libro, con 38 semplici schede illustrate, dedicate ad altrettante piante, invita il lettore a cercare lungo i muri, i marciapiedi, le rotatorie stradali (meglio ad agosto, per evitare incidenti!) la presenza di una natura irriducibile ma troppo spesso dimenticata. Che cambia con l’evolversi dell’area urbana: “Tra la parte vecchia e quella nuova delle città ci sono evidenti differenze di flora: le aree più antiche, dove ci sono pietre e calce, sono più ricche di piante; quelle moderne, dove domina il cemento, spesso ricco di scarti di fonderia, hanno meno vegetazione”, spiega Zara, che vive in un piccolo maso in Vallarsa (Trento) dove cura, assieme alla famiglia, un’azienda agricola che si occupa della coltivazione di piante medicinali.
D) Dottor Zara, a prima vista può sembrare insolito affiancare le piante medicinali alla città. Com’è nata l’idea di questo libro?
R) L’idea è stata di Massimo Mercati, direttore generale di Aboca. Spesso, nell’ambito della formazione per farmacisti ed erboristi, organizziamo escursioni guidate per riconoscere piante medicinali. Di solito sono in ambienti naturali, ma l’anno scorso per la prima volta a Senigallia abbiamo proposto percorsi simili in città. Ci sono vegetali che calpestiamo tutti i giorni, senza sapere che sono alla base dei prodotti erboristici che poi compriamo. A Mercati l’approccio è piaciuto molto, e mi ha convinto a scrivere questo libro.
D) Dunque è sbagliato pensare che le città siano aree con una bassa concentrazione di biodiversità?
R) Sì. Le città sono una grandissima fonte di biodiversità. Nelle aree urbane sono state censite un migliaio di piante spontanee, di cui una buona parte medicinali. Le città sono anche uno dei pochi ambienti dove vivono queste piante. A volte sono infestanti: scappano da un giardino e si ritrovano lì vicino. Altre volte, come nel caso del cappero o della celidonia, vivono in luoghi insoliti, come in cima a vecchie torri o in antichi muri. Riescono ad arrivare in posti così particolari grazie al rapporto di simbiosi che hanno con le formiche.
D) In che cosa consiste di preciso questo rapporto?
R) I semi di cappero e celidonia hanno una riserva di grasso che risulta appetibile per le formiche. Così, questi insetti portano i semi nelle loro tane, per esempio lungo vecchi muri: in questo modo queste piante riescono ad arrivare in luoghi a loro congeniali, ma altrimenti irraggiungibili. I vegetali, inoltre, di solito amano i vecchi edili, che sono più “naturiformi”. Tra la parte vecchia e quella nuova delle città ci sono infatti evidenti differenze di flora: le aree più antiche, dove ci sono pietre e calce, sono più ricche di piante; quelle moderne, dove domina il cemento, spesso ricco di scarti di fonderia, hanno meno vegetazione.
D) Il libro invita le persone a imparare a riconoscere le piante in città. Ma queste piante possono essere raccolte e utilizzate?
R) In città assolutamente no. Le piante accumulano le sostanze tossiche, quindi è altamente sconsigliato utilizzare piante che crescono in ambienti inquinati come le città. L’idea è piuttosto quella di legarsi a loro con un rapporto di riconoscimento. Prima nelle città c’erano più spazi verdi e le persone erano ancora in grado di riconoscere le piante. Oggi la distanza tra il mondo umano e quello vegetale è abissale, il rapporto si è completamente perso. Alcuni ricercatori americani hanno dedicato molti studi alla “plant blindness”, ossia l’incapacità delle persone di riconoscere le piante. Gli scienziati hanno notato che si riconoscono meglio gli animali, perché si muovono, che le piante, crescendo insieme, di solito vengono percepite come una generica macchia verde, e che le riconosciamo solo quando hanno il fiore.
D) C’è un problema anche di concezione del verde urbano?
R) Le piante non stanno nelle aree verdi cittadine perché noi non le vogliamo. Se smettessimo di dare diserbanti e tagliare l’erba, le piante riprenderebbero gli spazi. L’uomo non le vede come una cosa bella, preferendo spazi ben organizzati, mentre la natura è caotica e entropica. Quando si parla di verde urbano, si parla di arredo verde e di architettura più che di piante spontanee: il verde urbano riguarda ciò che è voluto dall’uomo, non quello che c’è in natura. Altre volte, invece, ci lamentiamo di piante infestanti, ma siamo noi ad averle portate nei giardini.
D) Tornando alle piante spontanee, spesso non siamo portati a dar loro un significato diverso se le vediamo in città o in campagna?
R) Sì, io chiamo questo fenomeno “associazione a delinquere”. Prendiamo la fitolaca: se la vediamo crescere vicino a un cassonetto dell’immondizia, la consideriamo automaticamente una pianta di scarso valore, in un ambiente naturale, invece, ci appare bella!
Veronica Ulivieri