State of the world 2011: innovazioni per nutrire il pianeta
In occasione delle presentazione italiana di State of the World 2011, questa sera al Museo di Scienze Naturali di Torino, pubblichiamo l’approfondimento di Bianca La Placa, che uscirà in versione integrale sul numero di marzo di .Eco, il mensile italiano dell’educazione sostenibile.
Esce in questi giorni, anche in Italia, State of the World 2011, l’annuale rapporto del Worldwatch Institute – pubblicato da Edizioni Ambiente e curato da Gianfranco Bologna - che quest’anno dedica il focus alle “innovazioni che nutrono in pianeta” (come recita il sottotitolo) e al complesso tema delle relazioni esistenti tra popolazione, risorse, agricoltura e sicurezza alimentare, in particolare nell’Africa subsahariana.
I coordinatori del progetto per il Worldwatch Institute, Danielle Nierenberg e Brian Halweil, hanno analizzato la situazione mondiale proponendo al lettore una rassegna dei progetti più innovativi che si stanno realizzando in tanti paesi e comunità agricole e rurali.
«Nel corso degli ultimi due anni – spiegano Halweil e Nierenberg – abbiamo visitato 25 nazioni dell’Africa subsahariana (paesi in cui i problemi della fame sono più acuti e dove le comunità rurali soffrono di più) per ascoltare le storie di speranza e successo nell’agricoltura. L’Africa è il continente in cui, in gran parte delle nazioni, oltre un terzo della popolazione soffre la fame. Ciononostante sta diventando un ricco e vario serbatoio d’innovazioni agricole che promuovono il reddito degli agricoltori e il sostentamento della popolazione. Nel Malawi, ad esempio, in decine di aziende agricole, abbiamo visto tecniche che aumentano le rese e che vengono utilizzate da oltre 120.000 agricoltori, tra cui la messa a dimora di piante che fissano l’azoto arricchendo il suolo per il successivo raccolto di mais, quadruplicando le rese senza l’aggiunta di fertilizzanti».
L’obiettivo della ricerca era appunto individuare comunità, paesi e imprese capaci di diventare modelli per un futuro sostenibile. «Se vuole sfamare le generazioni future e se vuole alimentare meglio la popolazione – aggiungono i due ricercatori – l’agricoltura deve aggiungere diversità alla catena alimentare e deve curare gli ecosistemi. Ci siamo interessati anche ad applicazioni che possano essere impiegate al di fuori dell’Africa: una cooperativa per la coltivazione sui tetti che offre cibo alla popolazione di Dakar in Senegal, può diventare fonte di ispirazione per quartieri alle prese con carenze alimentari nelle zone degradate di New York».
«L’agricoltura – scrive il presidente del Worldwatch Institute, Christopher Flavin, nella prefazione a State of the World – rappresenta la principale fonte di sostentamento per circa l’86% dei 3 miliardi di persone che vivono nelle campagne nei paesi in via di sviluppo. La possibilità che abbiano un futuro migliore dipende in larga misura da ciò che succederà nelle aziende agricole nelle zone più indigenti del pianeta. Fino a poco tempo fa gran parte dei politici riteneva che l’unica strada per far progredire l’agricoltura in Africa fosse offrire più sementi produttive e più fertilizzanti (la cosiddetta Rivoluzione Verde). Si tratta di una formula semplice però in molti casi non ha funzionato. Sementi e fertilizzanti sono spesso troppo costosi per la maggior parte degli agricoltori poveri, e in molti casi non sono nemmeno disponibili. Questa idea è ora messa in discussione non solo a causa dei suoi limiti, ma anche perché i nuovi approcci per la creazione di un sistema agricolo sostenibile possono rivelarsi vincenti. Questa è la storia che raccontiamo con State of the world e nel progetto Nourishing the Planet del Worldwatch».
I ricercatori del Worldwatch Institute hanno infatti analizzato una vasta gamma di progetti agricoli innovativi e hanno trasmesso tali informazioni a un pubblico sempre più ampio di lettori del blog di Nourishing the Planet, oltre agli utenti di Youtube e Twitter.
«Il quadro che emerge è entusiasmante – continua Flavin – Gli agricoltori dell’Africa dimostrano che a innovare sono le comunità più povere del pianeta. Un cambiamento rapido e proficuo è possibile a patto che venga conferito potere ai piccoli agricoltori e alle donne, che in pratica controllano l’agricoltura in Africa. Se anche una parte infinitesimale delle risorse che ora si utilizzano negli allevamenti industriali statunitensi e nelle piantagioni di soia brasiliane fosse investita in piccole aziende agricole innovative, il pianeta non farebbe così fatica a raggiungere l’obiettivo stabilito dall’ONU di dimezzare la fame nel mondo entro il 2015».
UN SEME DOPO L’ALTRO
Esiste una soluzione alla fame nel mondo? «Non c’è una soluzione unica – sostengono Halweil e Nierenberg –. Anzi, gli approcci unidimensionali sono proprio quelli che hanno sortito gli effetti peggiori. I tentativi del passato hanno fallito perché hanno annullato la diversità o perché sono stati basati sugli agenti chimici e su altri input che gli agricoltori non potevano permettersi».
Da uno studio dell’associazione inglese Soil Association, è emerso che il miglior modo per garantire che tutti abbiano cibo a sufficienza è cambiare la tipologia degli alimenti prodotti e migliorarne la distribuzione: produrre meno carne, utilizzare metodi agricoli più sostenibili e che non dipendano da sostanze petrolchimiche e produrre più cibo a livello locale e regionale. «Di fatto, molte delle aziende e organizzazioni che abbiamo visitato sono riuscite a ridurre fame e povertà grazie a iniziative che poco avevano a che fare con la produzione di maggiori quantità di raccolti. Nei paesi più poveri il 25-50% del raccolto è contaminato da parassiti o muffe prima di raggiungere la tavola. Sistemi semplici e a basso costo possono dare risultati notevoli: bastano sacchi di plastica per tenere lontani i parassiti; silos progettati meglio per lo stoccaggio dei cereali e la conservazione della frutta con tecniche di essicazione al sole».
ORTI URBANI
Mentre gran parte dei poveri del mondo resta nelle zone rurali, la fame spesso si sposta in città. Almeno 800 milioni di persone dipendono dall’agricoltura urbana per alimentarsi. La maggioranza di questi agricoltori urbani si trovano in Asia, ma con 14 milioni di africani che ogni anno migrano dalla campagna alla città, presto anche a Lagos, Dakar e Nairobi l’agricoltura urbana sarà un’importante fonte di sostentamento per milioni di africani.
Sempre più importante diventa poi la stessa opportunità che i giovani continuino a fare gli agricoltori. In Uganda il Project DISC (per lo sviluppo di innovazioni per la coltivazione nelle scuole) ha riscontrato che insegnare agli studenti a coltivare, cucinare e ad alimentarsi con vegetali locali contribuisca a dare ai giovani un motivo per rimanere nelle aree rurali e diventare agricoltori.
I programmi di ristorazione scolastica del World Food Programme (WFP) hanno raggiunto almeno 10 milioni di bambine in tutto il mondo, e hanno contribuito a combattere le iniquità di genere nell’istruzione e nella nutrizione. Razioni di cibo da portare a casa incentivano i genitori a mandare le bambine alla scuola secondaria, mentre un’alimentazione migliore aiuta i bambini a svilupparsi adeguatamente e a rimanere concentrati durante le lezioni.
«La situazione in cui si trovano le relazioni tra sistemi naturali e sistemi sociali oggi è sempre più insostenibile dal punto di vista ambientale e di giustizia sociale – aggiunge Gianfranco Bologna nell’introduzione dell’edizione italiana di State of the World –. I segnali che ci indicano la necessità di cambiare la direzione della nostra marcia, ancora costantemente indirizzata sulla strada del perseguimento della crescita economica, sono sempre più chiari. Costruire e praticare un nuovo sistema economico non costituisce certamente un compito facile, ma il lavoro di tanti studiosi, gruppi di ricerca, istituzioni, organizzazioni e comunità che stanno agendo per il cambiamento in tutto il mondo ci aiuta a tratteggiare e a esplorare nuove strade concrete e praticabili rispetto a quella attuale».
La comunità internazionale sta preparando la nuova grande conferenza delle Nazioni Unite, la United Nations Conference on Sustainable Development per il 2012, 20 anni dopo il famoso Earth Summit, la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo che si tenne a Rio de Janeiro nel 1992. Questo nuovo summit dovrebbe affrontare in maniera chiara la necessità di un’autentica governance globale che tenga conto dell’importanza delle comunità locali e della necessità di impostare una nuova economia sostenibile.
Anche Carlo Petrini, presidente di Slow Food International, insiste sul legame tra benessere nell’alimentazione e benessere sociale e rileva segnali di cambiamento in questo ambito: «Finalmente le coscienze si stanno svegliando – dice – e sempre più persone maturano la consapevolezza che è giunto il tempo di trovare altri modi di fare, produrre e consumare. Io percepisco un quadro molto attivo, una rete che pone al centro delle proprie vite l’importanza del cibo, della cura dei territori e dell’ambiente e ne fa strumenti costruttivi. Ogni volta che incontro i rappresentanti dei produttori che partecipano a Terra Madre (la rete di oltre 2.000 comunità del cibo presenti in 153 stati del mondo che lavorano per un cibo “buono, pulito e giusto”) ho la sensazione che il tempo del pessimismo sia finito. Vedo che l’Africa è in prima linea, che ci sono le forze più entusiaste e creative, che meglio coniugano il passato al futuro e dunque rappresentano la nostra più grande speranza. La dimensione locale, quella della comunità, in questo quadro è imprescindibile, perché è che ci garantisce i risultati, il rapporto con gli altri, con la biodiversità che ci circonda e con la terra che calpestiamo. Se è finito il tempo di essere pessimisti è anche finito il tempo di fare rinunce: i nuovi modelli che si propongono e che emergono in tutto il mondo sono tutt’altro che mortificanti. Ci parlano di piacere e di piena riconquista della capacità di relazionarsi, di apprezzare ciò che vale per il suo valore e non per il suo prezzo. Il cibo è di nuovo paradigmatico: se è locale, fresco e di stagione, anche se povero sarà sicuramente molto piacevole. Ma se è locale, fresco e di stagione sarà anche sostenibile per l’ambiente, favorirà le agricolture locali e i contadini, accorcerà la distanza fra produzione e consumo e ne ridurrà i passaggi che spesso riescono a generare grandi ingiustizie. Il piacere di favorire la trasformazione è la vera novità di questo secolo, che genera un inedito ottimismo e funziona concretamente, perché non stiamo facendo altro che lavorare per la nostra felicità e per quella delle generazioni che verranno dopo di noi. Forse non ne siamo ancora pienamente consapevoli, ma a prescindere dal nostro campo d’azione, stiamo lavorando tutti per il diritto universale al bello e al buono. Resta molto nello “stato del mondo” che non ci piace e ci intristisce, ma proviamo anche a guardare a ciò che è già ricominciato: non soltanto ci servirà da modello di lavoro, ma ci renderà finalmente degli inguaribili ottimisti».
UN PO’MENO FAME
Secondo le previsioni della Population Division delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale arriverà a 7 miliardi di abitanti entro il 2011 e supererà i 9 miliardi per il periodo 2045-2050. Il rapporto della FAO di settembre 2010, dedicato allo stato dell’insicurezza alimentare mondiale, conta 925 milioni di individui sottonutriti. Sono 98 milioni in meno rispetto al 2009, ma il totale della popolazione denutrita sul pianeta è ancora lontano dal raggiungimento dell’obiettivo di dimezzare il numero delle persone affamate entro il 2015. Nell’ultimo decennio il numero complessivo di affamati nell’Africa subsahariana è aumentato. In Burundi, nelle isole Comore, nella Repubblica Democratica del Congo e in Eritrea la fame cronica affligge almeno la metà della popolazione.
Le donne e i bambini costituiscono la maggioranza degli affamati cronici. I prezzi del cibo e i redditi più bassi aggiungono alle famiglie più povere il rischio di non riuscire a garantire alle madri in gravidanza, ai bambini e ai neonati un’alimentazione adeguata. Di fatto, a livello globale, oltre un terzo della mortalità infantile è causata da un’alimentazione inadeguata.
Gran parte degli uomini e delle donne, solitamente agricoltori, che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno, risiedono in zone rurali, non possiedono né terreni né infrastrutture e non hanno accesso ai servizi sanitari o all’elettricità.
Bianca La Placa