Rob Hopkins: fare resilienza per dominare il cambiamento
All’interno di un percorso di capacity building organizzato dalla Fondazione Cariplo a favore degli enti no profit del territorio lombardo (in vista dei bandi di contributo aperti dall’ente), la scorsa settimana è intervenuto a Milano Rob Hopkins, giardiniere, ambientalista, e soprattutto cofondatore del movimento Transition Town e del Transition Network.
“Ieri venivo in treno da casa e riguardavo la ferrovia che le alluvioni di qualche mese fa avevano completamente distrutto. Avevo portato i miei figli a vedere quello spettacolo raccapricciante, i giorni dopo il disastro. È evidente: il cambiamento climatico non è più fantascienza, non è più un argomento rimandabile”. E quindi, dice Hopkins, visto che dall’alto non arrivano proposte soddisfacenti, visti i limiti dei consumi ammissibili, dell’innalzamento della temperatura ancora consentito e della disponibilità di risorse immediate, è sempre più necessario che la risposta arrivi dal basso: “come comunità possiamo fare molto. Non è sano crescere all’infinito; come se i nostri ragazzi non smettessero mai di farlo, di alzarsi. Non è sano. Dobbiamo optare per scelte intelligenti, e con urgenza”.
Hopkins, autore di libri quali The Transition Handbook, The Transition Companion e The Power of Just Doing Stuff: How Local Action Can Change the World, sostiene fortemente l’importanza delle economie locali e del ruolo che possono avere in risposta alle sfide globali, andando un po’ oltre il concetto di pura sostenibilità. La resilienza, infatti, deriva dagli studi ecologici e si riferisce alla resistenza che i sistemi oppongono agli shock esterni. Se la sostenibilità cerca l’equilibrio, la resilienza esplora i modi in cui gestire un mondo che non è in equilibrio. Quindi, sviluppando una buona resilienza, di fronte a eventi imprevedibili e violenti, i sistemi vulnerabili, le popolazioni, le città e le organizzazioni non cadono a pezzi, non si sfaldano, ma resistono cercando addirittura di creare beneficio dalla situazione di difficoltà.
“È cominciato tutto da un momento di incontro e da un invito alla riflessione che ho fatto ai miei vicini di casa di Totnes, nel Devon, qualche anno fa. Com’è un mondo con poche emissioni? È possibile? E si è partiti immediatamente con entusiasmo, che ci ha portato oggi ad essere una grande sperimentazione di riferimento e una reale alternativa responsabile”.
Così si inizia: le persone si incontrano a livello locale e mettono in pratica un programma di consapevolezza e di azione, stimolato da alcuni strumenti messi a disposizione dalla rete, ma sempre fortemente legato al territorio di riferimento.“Oggi la rete tocca 44 paesi nel mondo, più di 200 iniziative di transizione formalizzate e migliaia in fase di elaborazione e definizione; numeri non facili per un network nato informalmente da comunità indignate”. Ma qui sta la forza del gruppo, l’onda di un movimento che si è organizzato, ma che ci tiene a rimanere fuori dalle coalizioni partitiche e dai poteri politici. “Noi mettiamo a disposizione le esperienze e le competenze che sono già state messe in campo e cerchiamo di facilitare lo scambio attraverso momenti di formazione. Spesso alcune sperimentazioni possono essere replicate e adattate in altre zone, per questo è importante incrociare le informazioni e i tentativi fatti (il testo di recente pubblicazione “Transition Network, The New Economy in 20 Enterprises” racconta proprio venti esperienze facilmente riproducibili, NdR). Esistono referenti e responsabili di zona che si incontrano costantemente e si sostengono”, motivando la fatica e lo scetticismo che a volte ci si ritrova ad affrontare. “Il punto chiave nella Transizione è non pensare che si debba cambiare tutto subito, ma che le cose stanno inevitabilmente già cambiando e quello di cui abbiamo bisogno è lavorarci su in modo creativo, partendo col fare le domande giuste”.
E a volte, dall’impegno di pochi nascono progetti – Hopkins le chiama narrativamente storie – che riescono a creare cambiamento. Si promuovono i mercati di contadini e di prodotti km.0, “a Porto Alegre è stato creato un orto urbano davanti al supermercato come strumento di educazione e di sensibilizzazione; a Sarazota è stato stretto un accordo per cui i contadini raccolgono i prodotti che utilizzano e quello che avanza è raccolto dai volontari del gruppo Transition che gestiscono una food bank”, e così via, fino alle esperienze più articolate e strutturate, in cui vengono coinvolte le amministrazioni, riutilizzate le strutture pubbliche e messi in campo investimenti di denaro.
A Bristol – un’eccellenza del movimento - sono stati installati dei pannelli solari sulle case popolari, inizialmente grazie ad un finanziamento privato, in un secondo momento con il contributo del pubblico. “Insieme ad altri residenti di Totnes abbiamo costituito una cooperativa e gestiamo una birreria in una struttura del comune che era rimasta inutilizzata. Il profitto viene reinvestito a beneficio della comunità”. A Bristol, come a Totnes e a Lewes, sono state lanciate delle sterline locali, riconosciute persino dal governo centrale. La moneta alternativa, che ovviamente vale solo territorialmente, alimenta un’economia tutta locale e crea un circuito economico più virtuoso e sostenibile. Il sindaco e i funzionari pubblici sono pagati in moneta locale e i servizi pagabili con questa banconota sono sempre maggiori e sempre più efficienti. A Bath le amministrazioni sono impegnate e ripensare all’utilizzo dei fondi pensionistici, da dirottare verso una nuova economia.
“Abbiamo bisogno di leggi internazionali, come Copenhagen e così via, è chiaro. Servono risposte a livello nazionale, comunitario e internazionale. Servono risposte delle amministrazioni locali. Ma tutte queste trasformazioni saranno più semplici se ci saranno comunità attive, trascinanti e propositive. La resilienza è energia locale, e non è sostituibile in alcun modo dalle politiche globali”.
Alfonsa Sabatino