Nucleare e informazione secondo gli scienziati. Ne parlano Esof e Quaderni Darwin
Circola uno slogan, tra chi si occupa di comunicazione scientifica, che suona più o meno così: “Dalla parte degli scienziati per i contenuti e da quella del pubblico per il linguaggio”. Una formula che sintetizza bene uno degli obiettivi di Esof – lo Euroscience Open Forum in corso a Torino: quello del “superamento delle barriere tra scienza e società”.
Il meeting europeo è dedicato infatti alla ricerca e all’innovazione scientifica e si propone di rendere accessibili al grande ubblico ”gli sviluppi scientifici e tecnologici più all’avanguardia in tutte le aree: dalle scienze naturali, alle scienze sociali, alle materie umanistiche”.
Sabato 3 luglio é stato il turno della tanto dibattuta energia nucleare. Quali sono le sfide che attendono l’atomo? Come si inserisce il tema della messa in sicurezza delle scorie ad alta radioattività nel contesto della sostenibilità ambientale? Temi quanto mai spinosi e piuttosto tecnici che ci siamo aiutati ad affrontare anche attraverso i Quaderni Darwin , bimestrale di scienze che raduna, nel proprio comitato di redazione, importanti personalità del mondo della ricerca, italiana e internazionale e che ha dedicato l’ultimo numero monografico al nucleare.
Un’incongruenza con il sottotitolo che campeggia in copertina (“Per decidere da che parte stare, bisogna valutare rischi e benefici”) e con la chiave di lettura proposta nell’editoriale da Umberto Minopoli (Ansaldo Nucleare) secondo cui l’unico approccio possibile – alla questione energetica in generale e a quella nucleare in particolare – è quello scientifico: informato, argomentato, dati alla mano. Un approccio cioè che miri a spogliare il dibattito sull’atomo dall’emotività che indubbiamente lo caratterizza e che aiuti a individuare le risposte ad alcune domande cruciali: perché dovremmo aver bisogno del nucleare? qual è il livello di sicurezza attuale delle centrali di cui si propone la costruzione in Italia? come si risolve il problema delle scorie?
Il “viaggio” proposto da Quaderni Darwin, parte dall’analisi dei costi di produzione dell’elettricità, che determinano la competitività di un’economia. Il saggio di Ugo Spezia, dell’Associazione Italiana Nucleare , fa qui riferimento ad una “ventina di studi realizzati negli ultimi dieci anni”, che collocano tra i 3 e i 6 centesimi di euro al kWh, i costi del nucleare, apparentemente inferiori a quelli delle fonti fossili(da 4 a 8 centesimi) e delle fonti rinnovabili, che spaziano da 8 a 11 centesimi per l’eolico e da 30 a 40 centesimi per il fotovoltaico.
Purtroppo i prezzi italiani dell’elettricità – circa 14 centesimi per kWh – è noto che siano tra i più alti in Europa e la principale ragione, secondoDavide Tabarelli di Nomisma Energia , “è che il nostro mix produttivo risulta sbilanciato sul costoso gas, con poco carbone e senza nucleare”. La scommessa del Governo per i prossimi vent’anni pare dunque orientata, in quest’ottica, a far fronte al forte aumento della richiesta elettrica per non deprimere l’economia. Ma la vera sfida, se è vero che le attuali disponibilità di uranio possono soddisfare le richieste unicamente per un centinaio d’anni, è, sostiene Ivo Tripputi dell’Ain, che i nuovi reattori possano produrre più combustibile di quanto ne consumano.
Il recupero di competitività del Paese è al centro anche dell’intervento di Francesco De Falco, amministratore delegato di Sviluppo Nucleare Italia (frutto della joint-venture tra la francese Edf ed Enel) che richiede una profonda ristrutturazione del mix produttivo e il ricorso a tutte le tecnologie oggi disponibili: tra cui – ovviamente – il reattore di terza generazione Epr (European Pressurized Reactor), progettato dalla francese Areva , che oggi, dopo decenni di ricerca, assicura Davide Giusti dell’Enea, garantisce “massima sicurezza” ed “economicità di gestione”.
Quanto alle scorie radioattive – il punto più caldo del dibattito sull’atomo – Francesco Troiani, dell’Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie , chiede fiducia, garantendo che “esistono soluzioni provate e affidabili” pur confermando che la vera sfida, come si diceva, è quella di progettare “un reattore che produca combustibile quanto ne consuma e in grado di eliminare il problema delle scorie”, come ribadito anche da Carlo Artioli dell’Enea.
I due saggi di Marco Sumini, direttore del Master di Progettazione e Gestione dei Sistemi Nucleari Avanzati dell’Università di Bologna e da Pietro Maria Putti, dell’Università Politecnica delle Marche, esauriscono la sezione analitica del volume sul tema deivincoli ambientali e delle nuove regole del diritto nucleare.
Ma perché, si dice, “un incidente come Chernobyl non potrebbe mai verificarsi” con le nuove tecnologie? “Una delle principali accuse che l’uomo comune rivolge al nucleare”, premette Felice De Rosa dell’Enea, “è che può creare danni a persone e cose senza che se ne avverta la sensazione, silenziosamente, mortalmente e anche da enormi distanze. Nell’immaginario collettivo, l’assenza di limiti spazio-temporali esalta ancor più la natura potenzialmente maligna del nucleare e non si comprende perché sia necessario accettare una tale spiacevole minaccia per produrre energia elettrica”. Stiamo cioè parlando di percezione del rischio, uno dei fattori che più condiziona il giudizio dell’opinione pubblica. Di cosa si tratta? La rivista dedica curiosamente all’argomento un contributo non firmato che afferma, con una certa enigmaticità: “il pubblico vuole essere meglio informato soprattutto sulla gestione delle scorie ma questo non significa che voglia essere coinvolto nelle decisioni sul nucleare”…
Sulla volontà dei cittadini di conoscere meglio le scelte pubbliche che li riguardano da vicino, non c’è in realtà alcun dubbio: secondo i dati dell’ultimo Eurobarometro infatti gli abitanti dei paesi in cui esistono già reattori in funzione tendono ad avere opinioni più precise a questo riguardo.
“Una migliore conoscenza”, continua tuttavia il saggio, “favorisce una maggior apertura: a voler essere interpellato, infatti, è solo un quarto degli europei e il 21 per cento degli italiani. Per gli altri, il processo decisionale deve essere gestito dalle autorità, con il coinvolgimento del Parlamento e delle organizzazioni non governative”.
Eppure, il coro di no al nucleare italiano, sollevato da quasi tutte le regioni italiane (che hanno fatto ricorso, poi respinto, ai giudici costituzionali) e spesso frettolosamente liquidato come “Effetto Nimby” (Not In My Back Yard, ovvero “Non nel mio cortile”), ha mostrato come tutti i processi decisionali di rilievo dovrebbero auspicabilmente essere il più possibile partecipati, e non solo “formalmente” e a posteriori, attraverso formule compensatorie.
Se è vero infatti che i cittadini non hanno gli strumenti per comprendere fino in fondo questioni prettamente tecniche, su cui non sarebbero comunque in grado di decidere, è altrettanto vero che la mancanza di informazioni su scelte che riguardano il territorio e le sue infrastrutture, aumenta il disorientamento e l’ostilità, reazioni naturali a qualsiasi cambiamento non adeguatamente illustrato.
L’effetto Nimby, naturale conseguenza di politiche “calate dall’alto”, dovrebbe poi mettere in discussione le stesse modalità di comunicazione delle decisioni pubbliche che riguardano il bene comune: questo non significa bloccare il paese con infiniti veti incrociati ma avviare, per tempo, processi partecipati, sul modello di quel consenso informato che è stato una conquista importante in ambito sanitario. Su questo, l’atomo italiano (e all’italiana) parte da molto lontano.
Ilaria Donatio
Per un’analisi meno ottimista delle criticità del nucleare “di terza generazione” si veda anche l’intervento di Ermete Realacci sul numero di marzo di Medidea Review, riportato su Greenews.info del 19 marzo 2010: “Nucleare: sì, no o domani?”.