“Mas-Sacre”: Stravinsky e l’industria della carne
Una delle più grandi rimozioni collettive della nostra società è il mattatoio. Non solo il luogo fisico della macellazione, relegato ai margini della città, fuori dalla vista, lontano dall’udito, occultato all’olfatto; ma anche il simbolo di un’industria alimentare di cui – per pigrizia, ipocrisia o cattiva coscienza – non si vogliono conoscere le regole.
Se il marketing, con la sua sistematica infantilizzazione della società, non fa altro che assecondare il nostro desiderio di non vedere, tocca allora sempre più spesso all’arte riportarci la realtà davanti agli occhi. E il teatro, forte di un primato di fisicità e prossimità che poche altre forme di comunicazione conoscono, può avere in questa “missione” un ruolo particolarmente incisivo.
Nel filone di denuncia del consumismo acritico che ha reso i nostri stili di vita sempre meno sostenibili (da un punto di vista sia etico che ambientale) si inserisce anche Maria Clara Villa Lobos, coreografa brasiliana di origini e belga di adozione che da alcuni anni, con la compagnia XL Production, dedica la sua ricerca artistica agli eccessi della società dei consumi. Il suo ultimo lavoro, in scena a Torino per il festival Teatro a Corte, si concentra proprio sul nodo moralmente più spinoso del sistema cibo: l’industria della carne.
Mas-Sacre, come suggerisce il titolo, prende le mosse dalla Sacre du Printemps (Sagra della Primavera) di Stravinsky. Il ritmo demoniaco della musica, la ritualità selvaggia che un secolo fa, incanalata nelle rivoluzionarie coreografie di Nijinsky, scandalizzarono i teatri di mezza Europa ritornano, ma mutati di segno. La fascinazione di Stravinsky per i riti pagani di celebrazione della Terra, l’evocazione di un mondo barbarico, primitivo, “naturale”, si ribaltano, sulla scena di Villa Lobos, in un grottesco annichilimento dei cicli naturali. I ritmi ostinati e le sarabande vorticose fanno qui da colonna sonora a una catena di montaggio (o meglio, smontaggio, per usare un’espressione di Safran Foer) in una fabbrica di pollame, a una macabra danza di animali impazziti di dolore in un mattatoio, a un’orgia di lascivi pagliacci del McDonald che blandiscono e poi divorano, non senza averla prima ben condita di ketchup, una bizzarra bambina-maiale.
Sullo sfondo, un bombardamento senza posa di video di repertorio sugli allevamenti industriali: pulcini schiacciati uno sull’altro, mucchi di scarti sanguinolenti, carcasse di animali, musi terrorizzati, occhi urlanti sofferenza. Un museo degli orrori che, malgrado la sacrosanta funzione di denuncia, risulta tuttavia “troppo” – troppo viste le immagini, eccessivo e inutilmente didascalico l’accumulo di segni – per sortire ancora qualche effetto profondo.
È invece quando la scena si asciuga, prendendosi una tregua dal flusso ininterrotto di video, che scatta l’immedesimazione e il messaggio può giungere finalmente diretto, attraverso quella fisicità e prossimità allo spettatore che, si diceva, sono il mezzo peculiare e più potente del teatro. Assuefatti ormai alle immagini dei polli in batteria, dei loro corpi senza vita sul rullo che li condurrà, ben impacchettati, a riempire il banco frigo del supermercato sotto casa, non possiamo però non provare un sussulto di pietà quando un pollo morto ce lo troviamo davanti, a pochi metri, con gli occhi chiusi e il lungo collo inerte raccolto con dignità accanto al corpo, come un cigno addormentato. Se poi quel pollo comincia a danzare e la sua schiena spiumata, con le scapole sporgenti, risulta essere incredibilmente simile a quella della ballerina lì accanto, anche lei nuda e inerme su un carrello da macelleria (o un tavolo da obitorio?), allora l’immedesimazione è compiuta.
«Quando mangiamo carne prodotta in allevamenti industriali – scriveva qualche anno fa Jonathan Safran Foer nel duro saggio -inchiesta Se niente importa – viviamo, letteralmente, di corpi torturati. Sempre più, quel corpo torturato sta diventando il nostro». Non è detto che si debba scegliere la via del vegetarianesimo, ma a questo punto la consapevolezza è doverosa e l’ingenuità, tanto preziosa per il marketing, sarebbe solo cattiva coscienza.
Giorgia Marino