La Sindrome del paesaggista. Intervista a Franco Zagari
In vista del convegno internazionale ”Paesaggio: cura, gestione, sostenibilità“, in programma venerdì 5 ottobre nel contesto della biennale “Creare Paesaggi” di Torino, pubblichiamo un’intervista inedita della nostra redattrice Valentina Burgassi al paesaggista Franco Zagari. Professore ordinario di Architettura del Paesaggio all’Università di Roma La Sapienza, Zagari è intervento, a gennaio scorso agli “Incontri con il Paesaggio” organizzati da Uniscape per promuovere il nuovo corso di Laurea interateneo in “Progettazione delle Aree Verdi e del Paesaggio”, che coinvolge gli atenei di Torino, Milano e Genova.
Incontriamo Zagari in occasione di un convegno al Castello del Valentino, dal titolo “Città non città – Lavori in corso”. Tema centrale della riflessione, la città diffusa: “un ennesimo modo di definire le grandi conurbazioni del nostro tempo, terra di mezzo né urbana né rurale, fenomeno che investe molte aree metropolitane nel mondo”, ci spiega. In sostanza, si riferisce alla presa di coscienza che siamo oggi di fronte ad un grande cambiamento che ha prodotto un quadro disastroso dal punto di vista urbanistico ed ambientale, per cui viviamo una crisi di qualità anche del paesaggio. Se l’opinione pubblica percepisce, però, in modo molto concreto il degrado ambientale, non altrettanto si può dire di quello del paesaggio che ci circonda. Eppure “il paesaggio è pur sempre un organismo vivente, che si muove, muta e muore”.
Il problema dell’architetto paesaggista, afferma Zagari, è duplice: deve ricreare nel territorio in cui lavora una continuità con la forte eredità del nostro passato, ma deve avere anche la consapevolezza del luogo in cui vive, in relazione al futuro. Buona regola per rendere consapevole la civitas del luogo in cui dimora è quella di creare con il paesaggista un progetto di tipo partecipativo, perché realizzare nuovi segni per uno spazio pubblico richiede la disponibilità dei cittadini e della comunità. D’altronde, ciò che fa da sfondo alla vita sociale dell’uomo è, da sempre, l’urbe, nella quale ogni singolo cittadino deve potersi riconoscere. Citando Marco Romano: “la città è quella dove i suoi cittadini si avvertono intimamente tali, quella nella quale, nel bene e nel male, è nata e cresciuta la nostra civiltà, con i suoi diritti umani e con le sue libertà, che in qualche modo vorremmo costituissero – più ancora del suo progresso tecnico – l’humus di un progresso spirituale”.
Per spiegare il problema delle città di oggi, Zagari fa riferimento alle sindromi : c’è quella di Aristotele, vale a dire la necessità di ricreare un equilibrio tra l’uomo ed il contesto in cui vive. La sindrome di Sherlok Holmes, che riassume tutti i disastri dell’urbanistica contemporanea e quindi porta all’esigenza di effettuare accurate analisi nel redigere un piano (mentre molto spesso in Italia si fanno indagini approssimative, spendendo soldi pubblici invano e senza capacità di penetrazione della vera questione urbana). Il progetto del paesaggio necessita della diagnosi di interpretazione e di un metodico e continuo lavoro di zoom in e zoom out, per comprendere al meglio il territorio. C’è poi la sindrome di Giano, di lotta perenne tra passato e futuro di una città, dove il centro storico rimane intoccabile da secoli e si ha quasi un timore reverenziale nonché vincolistico nel proporre qualunque novità; e, ancora, la sindrome di Archimede, dove con mezzi limitati si arriva invece a risultati notevoli. Basti pensare all’attività del paesaggista, che si basa sulla riorganizzazione del territorio con grandi interventi, ma anche su piccole puntualizzazioni (come il progetto di illuminamento, per esempio) che possono cambiare in toto la percezione di un luogo. Infine, la sindrome di Dostojevskij riporta all’estetica della città che, al pari di un’opera d’arte, ha una sua committenza per la quale la bellezza rappresenta uno scopo e, allo stesso tempo, una valenza sociale per la collettività che la compone. “Difficile dire, leggendo un Piano Regolatore, quanto ciò che rientra in urbanistica risponda a determinati criteri estetici: ad un certo punto nel PRG si sfocia nell’astrattismo di linee guida e punti, togliendo in qualche modo dignità al Paesaggio”, afferma Zagari.
Dietro alla questione estetica delle città italiane vi è dunque una più forte questione amministrativa di responsabilità. “Una volta, nel momento in cui l’architetto assumeva l’incarico, otteneva a pieno titolo l’autonomia di pensiero ma soprattutto la responsabilità della propria opera. Oggi nelle Pubbliche Amministrazioni invece, si lavora sulla difensiva, con norme di legge di censura: i lavori pubblici si assegnano al massimo ribasso, si assegnano opere con decurtazioni così consistenti che le opere sembrano fatte di carta. La condizione dell’architetto è diventata tale perché l’engineering l’ha distrutta”.
D) Prof. Zagari, cosa significa tentare di disegnare lo spazio urbano al tempo della globalizzazione, dei consumi, delle problematiche ambientali?
R) E’ da tempo che l’architettura fatica a immaginare e progettare la città. Il declino della civiltà industriale è segnato dal fallimento di una città macchina per abitare ed è costellato di fossili, alcuni eroici come la carta di Atene, altri in forma di città ideali come Brasilia e Chandigarh, alcuni teneri e poetici, ma sterili. Io penso che i grandi maestri del Movimento moderno abbiano dato molto di più nel loro splendido autunno che nelle battaglie di avanguardia. Si pensi solo a Le Corbusier e alla ricchezza dell’eredità dei suoi oggetti a reazione poetica, quei correttivi della rigidità dei suoi assiomi che hanno finito poi per avere il sopravvento diventando i principi stessi dell’architettura. Ma penso anche che accanto a loro vi siano stati tanti maestri che architetti non erano e che le storie non registravano, autori come Burle Marx, Sørensen, Shighemori, Halprin, Barragàn, Pikionis … Sono oggi necessari molti approcci, diversi saperi che interagiscano fra loro e un forte coinvolgimento del pubblico, quando sia correttamente interpretata la vocazione in un luogo a esprimere dei valori condivisibili da uno o più individui, una o più comunità che se ne sentano partecipi e responsabili. La città del nostro tempo, non più propriamente urbana, né rurale, né naturale, che in circa venti anni si è costruita e decostruita in misura maggiore che nel resto di tutta la storia dell’umanità, che nel pianeta vede più della metà degli uomini ormai inurbati, è caratterizzata da una discontinuità così forte da richiedere nuovi strumenti e nuovi metodi. Dobbiamo lavorare su relazioni e sistemi, su attività e flussi, su programmi proiettati nel tempo, abbandonando la determinazione deduttiva dal piano generale a quello particolare, al progetto di architettura. In molti pensiamo che la terribile crisi dell’habitat che stiamo vivendo riguardi la crisi del paesaggio, quella qualità del territorio che unisce in sé valori etici, estetici e di conoscenza in caratteri nei quali la gente che vive o frequenta un luogo dove possa riconoscersi … Per questi motivi secondo me vi è una assoluta necessità che il paesaggio sia una questione di vitale interesse pubblico, per ragioni non solo culturali ma anche economiche e sociali, e che debba essere quindi posta come una questione politica e istituzionale con assoluta priorità.
D) Il paesaggio è la geografia volontaria che l’uomo plasma e muta incessantemente intorno a sé. Di fronte ad un nuovo progetto di paesaggio, qual è il suo approccio?
R) A fronte di una crescita demografica che non è sostenibile da alcuna misura di salvaguardia, nel pianeta si e’ verificata una spinta di urbanesimo senza precedenti. Una comunità nella misura della sua consapevolezza del paesaggio che vive o visita o che anche solo conosce, agisce con delle azioni progettuali conseguenti, di tutela, gestione o innovazione. In questo senso possiamo dire che paesaggio è progetto, essendo un organismo vivente o evolve o muore. Quanto al mio approccio, secondo me, in primo luogo il progetto deve dimostrare di essere capace di collaborare con altri saperi, di saper comunicare e di saper evocare, ascoltare e valorizzare il contributo di chiunque si senta legato a quel paesaggio, abitante, visitatore o cultore. In secondo luogo, come vi è uno scambio di continua interrelazione fra i momenti di analisi e di interpretazione dei contesti, lo stesso scambio di informazioni e di progressivi aggiustamenti del tiro dovrebbe esserci fra sperimentazione progettuale e pianificazione. E’ evidente che per sostenere questo processo così complesso è necessario, anche e soprattutto, un cambiamento di mentalità. Sono troppi i padri della patria che si limitano a prendere le distanze e a esecrare tutto quello che si muove, bisogna assumere invece un impegno a lavorare con dedizione nel contesto reale, anche il più rifiutato, ascoltandolo e rispettandolo, come un corpo malato. Le diverse dimensioni del progetto di paesaggio, dal tema del landmark a quello della scala vasta, sono forme e idee sempre più eminentemente atipiche e ascalari. Fra le varie dimensioni vi è sempre una contaminazione reciproca e una continuità logica, che vede ad esempio il giardino come laboratorio sperimentale di modi di essere e comportamenti dell’abitare che sperimentano nuove forme di organizzazione del territorio e della città. La dialettica fra realtà locali e globali pone infatti il paesaggio in un processo di continua trasformazione che ha manifestazioni del tutto nuove per entità e velocità, ancora poco conosciute. Nelle impostazioni più ortodosse del progetto di architettura e di urbanistica c’è un mutuo accordo di una divisione di competenza di scala per ordini dimensionali: la scala architettonica riguarda il progetto edilizio, perpetra il teorema delle tre invarianti fondamentali di Vitruvio e quella urbanistica riguarda invece un progetto il cui contenuto è essenzialmente politico-giuridico, stabilendo diritti e doveri in una dialettica fra interesse pubblico e privato, che è il regno dei numeri, degli indici e delle statistiche. Gli stessi programmi di rappresentazione del progetto sono molto diversi, regni non comunicanti di Autocad e del Gis. I due immaginari, mondi rispettivamente tri e bi dimensionali, convivono da troppo tempo in una carenza di interrelazione e di scambio e il paesaggio risulta un’incognita che entrambi, senza convinzione, dichiarano essere una propria estensione. Ed ecco il mistero, è l’estetica che a un certo punto, alla cosiddetta “scala vasta“, è come se evaporasse, tutto si traduce in quantità e numeri. Il paesaggio, in quanto progetto, è materia contesa, ma con un certo scetticismo che lo spinge sempre di più verso altri approcci più pragmatici, mentre anche altre discipline si presentano con una capacità progettuale. E’ interessantissimo il caleidoscopio di contributi che sarebbe follia non valorizzare. In primis gli agronomi, che negli ordini degli studi sono la disciplina che si è più impegnata in Italia, ma non vanno trascurate altre componenti protagoniste in questo campo, come gli ingegneri, gli economisti, i sociologi, gli ecologi e i geografi e fondamentali, quei saperi che indagano sui caratteri e sui significati, come i filosofi, dagli esteti ai semiotici. Ma bisogna rendersi conto dell’esistenza anche di una disciplina che attorno a questo tema si è formata, che ha oltre un secolo di esperienza, con autori, maestri e opere che hanno esercitato una influenza non secondaria nella storia del pensiero. Parlo dei paesaggisti, il cui ruolo potrebbe e dovrebbe essere, per formazione, non solo quello di essere detentori di scienze e tecniche specifiche, ma di essere deontologicamente preparati per favorire l’incontro fra i diversi saperi e i processi di comunicazione, concertazione e partecipazione volti a portare i cittadini a essere, loro, sempre più partecipi e responsabili. Naturalmente è giusto che tutte queste discipline umanistiche e scientifiche, ed altre, si confrontino e diano un contributo, ma il paesaggio in quanto disciplina ha anche una sua storia e una sua specificità che deve essere tenuta in debito conto, perché altrimenti è come se mancasse un catalizzatore o un lievito, tutti questi saperi implodono e rimangono sterili.
Valentina Burgassi
Leggi la seconda parte dell’intervista a Franco Zagari nella sezione Ambiente di Greenews.info su Stampa.it